‘Ndrangheta, tutte le donne dei Bellocco: dalla moglie del boss alla «sacerdotessa del potere mafioso» di Rosarno
Dall’inchiesta “Blu notte” il ruolo di mogli, madri e figlie legate al potente e storico casato criminale

LAMEZIA TERME Figure femminili di rilievo, affatto marginali. Una presenza a tratti cruciale per le dinamiche criminali di una delle più potenti e “nobili” cosche di ‘ndrangheta come i Bellocco di Rosarno. È uno degli aspetti chiave emersi dall’inchiesta “Blu Notte” della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria e confermata, nella prima sentenza di primo grado, al termine del processo con rito abbreviato. Il gup distrettuale, Margherita Berardi, lo scrive nero su bianco nelle centinaia di pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza emessa nel settembre dello scorso anno, focalizzandosi anche su tre donne di assoluto livello ‘ndranghetistico.
Emanuela Bellocco «sacerdotessa del potere mafioso»
È considerata «partecipe della cosca» con il ruolo di veicolare le notizie tra sodali detenuti e quelli in libertà, ricoprendo un ruolo funzionale quasi essenziale in un momento critico per la potente cosca di Rosarno dopo l’arresto del fratello. Il gup distrettuale di Reggio Calabria tratteggia così il profilo di Emanuela Bellocco (classe 1975) condannata in abbreviato a 14 anni e 8 mesi di carcere, richiamando la sentenza passata in giudicato del processo “Vento del Nord”.
Emanuela Bellocco è, insieme a Martina Palaia e Maria Serafina Nocera uno dei “simboli” delle donne al potere nella cosca di Rosarno. Tanto in quella inchiesta quanto in “Blu notte” il compito di Emanuela Bellocco era legato al raggiungimento e al buon esito degli affari della cosca di famiglia dei quali era a conoscenza tanto da poterne, con il proprio operato, «determinare la riuscita, sia pure sotto le direttive del fratello Domenico (cl. ’77), reggente del sodalizio, all’epoca detenuto».
Stesso ruolo vitale che Emanuela Bellocco aveva continuato a svolgere dopo l’arresto del fratello Umberto (cl. ’83) nel 2012, per conto del quale «aveva recuperato le chiavi dell’appartamento di Milano dove aveva trascorso la latitanza, sventando il pericolo che il gruppo criminale potesse essere danneggiato dalla scoperta di eventuali covi o rifugi e dal rinvenimento di oggetti, documenti, denaro o altro dal contenuto compromettente». Per il gup distrettuale Emanuela Bellocco è la «vera sacerdotessa del potere mafioso criminale a Rosarno» in quanto figlia di Giuseppe Bellocco (cl. ’48), potere che viene solo esercitato esteriormente dal marito, «a tratti quasi una vera e propria “marionetta” nella mani della moglie che lo rimprovera costantemente per gli scarsi frutti delle attività illecite affidategli dal fratello detenuto» si legge ancora nelle motivazioni, istigandolo ad impegnarsi di più, arrivando ad offenderlo dicendo di andare a cercarsi un lavoro appena finita la detenzione domiciliare, «quasi a volerne sminuire le capacità criminali visti gli scarsi frutti della sua attività illecita».
La giovane Martina Palaia
Altra “donna di spicco” inserita nel clan Bellocco è la figlia di Emanuela Bellocco e Francesco Benito Palaia: Martina Palaia (classe 1998). Quest’ultima, condannata a 8 anni e 6 mesi di reclusione, per il gup, accogliendo la tesi accusatoria, «partecipa personalmente e attivamente alle discussioni inerenti ai contrasti interni alla cosca celebrate dentro casa Palaia», a cominciare dalla risoluzione della vicenda Stilo-Barrese che ha visto contrapporsi il ramo della cosca Bellocco – diretto dallo zio Umberto dal carcere con l’ausilio del padre – e i cosiddetti “scissionisti” facenti capo al ramo diretto da Domenico Bellocco (cl. ’76) alias “Mico u Curtu”. Martina Palaia, inoltre, «interloquisce direttamente con lo zio Umberto detenuto, informandolo di sua iniziativa e recependone direttive che poi trasmette per l’esecuzione al padre», si legge ancora nelle centinaia di pagine di motivazioni. «Io volevo essere maschio, volevo diventare!», così Martina Palaia, compiacendosi di un compito criminale svolto con successo, sosteneva che «sarebbe stata ancora più incisiva, dal punto di vista criminale, se fosse nata del sesso diverso per poter esplicare in modo manifesto la sua “autorità mafiosa”», annota il gup nelle motivazioni. Oltre alla partecipazione alle discussioni durante le quali si decidono le strategie della cosca, Martina ha avuto il ruolo di canale di comunicazione dello zio Umberto (cl. ’83) e di procacciamento di telefoni e schede poi introdotti in carcere. Inoltre, proprio come la madre Emanuela Bellocco, Martina era «addetta all’interpretazione dei codici numerici inviati dal carcere dallo zio Umberto» per agevolare il cognato nella attività di direzione degli affari illeciti del sodalizio.
La moglie di Peppe Bellocco
Infine, Maria Serafina Nocera (classe 1954), moglie di Giuseppe Bellocco (cl. ’48), mamma di Emanuela, condannata a 11 anni e 8 mesi di reclusione. La donna è considerata «intranea al sodalizio capeggiato in quel momento storico dal figlio Umberto, ancora detenuto, avvalendosi quale braccio operativo del cognato, marito di Emanuela, ma in realtà non gradito alla Nocera», riporta il gup nelle motivazioni. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Cacciola ha indicato Maria Serafina Nocera quale «soggetto dotato di un autonomo potere criminale mafioso», esercitato soprattutto all’interno della famiglia, «orientando le scelte criminali di marito e figli perché, per regola, nella ‘ndrangheta le donne non sono ammesse alle riunioni ma ciò non impedisce loro di incidere sulle scelte del sodalizio», si legge ancora nelle motivazioni. Maria Serafina Nocera era «collettore dei proventi delle attività estorsive soprattutto nel settore della guardianie», ma anche «mediatrice delle richieste estorsive e talora concorrente nelle richieste di ingiuste somme di denaro». Inoltre, Nocera «assolve alla consueta funzione di postina (cui sono spesso addette le donne dei boss)» scrive ancora il gup distrettuale «fra il figlio Umberto Bellocco e il genero Francesco Benito Palaia, veicolando unitamente alla nipote Martina Palaia durante il colloquio del 7 novembre 2019, il messaggio che poi verrà recapitato ad Antonio Mandaglio da Michelangelo Bellocco e Michele Larosa». (g.curcio@corrierecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato