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ALTA MODA ARTIGIANALE

La camiceria di Dolce&Gabbana? Si trova nel cuore sperduto della Calabria

Ad Orsomarso, entroterra dell’alto Tirreno cosentino, opera dal 1976 una piccola manifattura a gestione familiare che lavora soprattutto per i grandi marchi. Storia di un successo silenzioso

Pubblicato il: 05/10/2025 – 15:27
di Eugenio Furia
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La camiceria di Dolce&Gabbana? Si trova nel cuore sperduto della Calabria

ORSOMARSO Emo Bottone indossa una Golden Goose color ruggine con motivi geometrici beige. «C’è scritto Venezia ma l’abbiamo fatta noi» sorride il “mastro” con le forbici in mano, gli occhialini sulla punta del naso e il metro da sarto attorno al collo.
Ci sono storie che il destino cuce su misura, fin dal cognome: è il caso della camiceria Bottone, piccola manifattura calabrese a gestione familiare che opera dal 1976 ma ha lavorato o lavora soprattutto per i colossi dell’alta moda, da Dolce&Gabbana a Prada e Dior.
«La mia vita è tutta qui» dice Emo, volto alla Walter Matthau e flemma da Toni Servillo mentre si muove tra i suoi dipendenti e analizza i dettagli dispensando consigli ai suoi collaboratori e collaboratrici.

Nelle gole tra il Pollino e il mare

Siamo a Orsomarso, a un’ora e mezza d’auto da Cosenza, nel cuore del Parco nazionale del Pollino: tra ciclovie che ricalcano cammini millenari e arcaiche transumanze dallo Jonio al Tirreno, la costa si spalanca a sorpresa dopo che si percorre un bosco fittissimo sulle cime più alte della Calabria. Qui, in una gola scavata dal torrente Argentino dove non prende neanche il telefono, ad appena 120 metri sul livello del mare e a 15 chilometri da Scalea c’è questo capannone che a pieno regime ospita 24 dipendenti, non solo (ma soprattutto) donne: «Gli uomini? Siamo soltanto in cinque» racconta Gianluca, figlio di Emo (foto in basso) e factotum della camiceria Bottone che l’anno prossimo spegnerà le 50 candeline.

La lavorazione tradizionale

In mezzo secolo quante cose possono cambiare. Intelligenza artificiale? Macché, qui in realtà non si usano neanche i computer. La catena di produzione è condotta con un metodo artigianale, senza tagli automatici e laser computerizzati: dal cartamodello si procede senza l’utilizzo – sempre più diffuso altrove – di macchine da 200mila euro e oltre, strumenti che da un lato semplificano il processo ma dall’altro cancellano la forza lavoro. E poi «l’imperfezione fa parte dell’artigianalità» dice Gianluca, conducendoci nel cuore del ciclo produttivo della camicia, che viene assemblata per step nelle varie parti (il davanti, il collo, il polsino) fino agli orli e alle asole e infine applicando i bottoni, dopodiché è pronta per la stireria e il packaging.
La produzione media oggi varia dai 120 ai 150 pezzi al giorno, a seconda delle richieste. E così è per le annate, più o meno produttive, con un fatturato che copre il range compreso tra i 200mila euro e il milione.
L’entusiasmo di Gianluca per un mestiere con cui – anzi, dentro il quale – è praticamente nato e cresciuto si stempera un po’ pensando alla crisi del settore tessile: se anche Brunello Cucinelli deve ridimensionare qualche scelta azionaria in borsa, forse il campanello d’allarme è dietro l’angolo.
«Le banche? Ti danno l’ombrello quando c’è il sole, però quando piove non ti aiutano» fa spallucce Gianluca citando un aforisma attribuito a Mark Twain e ricordando «i tempi d’oro» con D&G, dal boom iniziato in pieni anni 90 con 15mila pezzi a stagione.
«Ora la produzione è di qualche migliaia di pezzi al mese, a seconda dei periodi», spiega, tra commesse anche per altri grandi marchi nazionali e internazionali e le camicie griffate Bottone1976, commercializzate tramite sito e vendita diretta e con testimonial che vanno dalla premier Giorgia Meloni, «conosciuta tramite un’amica in comune», a volti della tv come Nunzia De Girolamo (foto in basso) o giornaliste Rai come Laura Chimenti e Maria Antonietta Spadorcia.

Come tutto è cominciato

«L’impuntura a quattro o a cinque?». In questi spazi che sono casa, tra vecchie macchine Singer e Necchi – un logo storico incastonato nelle gambe di ghisa del grande tavolo di cristallo in sala riunioni – Emo Bottone si muove da 45 anni. «All’inizio è stata dura… ».
L’inizio è la prima esperienza lavorativa a Bergamo, alla Camper di Albino, breve ma intensa si direbbe oggi: da direttore della produzione, Emo la porta da 1.600 a 2.200 camicie al giorno (committente: Alea). Dopo appena 6 mesi rientra in Calabria, nonostante il titolare insista per trattenerlo. C’è che apre a Scalea, a venti minuti da casa, un’azienda, la Icm diretta da un tedesco, che vuole aggredire il mercato: qui Bottone continuerà ad acquisire esperienza e soprattutto conoscerà un altro sarto, Francesco Campagna, con cui lega e pensa al grande salto in proprio, ovvero una società in cui coinvolgere anche un fratello che si occupa della meccanica. Sono i tempi, i primi anni ’70, in cui lo stipendio è di 3mila lire «ma ne spendevo 1.500 per l’abbonamento dell’autobus» sorride oggi Emo.
Il Comune di Orsomarso ci crede e dà in uso ai tre soci lo spazio in un vecchio convento: in quello che è poco più di un corridoio viene stipata una quarantina di persone. Si parte. Tra problemi di corrente e difficoltà nel fare campioni per Cacharel e Pierre Cardin, «quante ore passate con la ruota della macchina da cucire girata a mano» perché la luce era andata via. A inizio anni ‘80 ci si sposta nel capannone a valle, poco fuori dal centro abitato.   
Qui la storia attraversa quattro decenni di crescita e arriva ai giorni nostri: «Oggi – riflette Emo Bottone – il mestiere è cambiato tanto nella richiesta quanto nella qualità, ricordo i tempi in cui avevamo commesse per Upim, parlo di 20/30mila camicie al mese. Ora più di allora la confezione è quasi un pronto moda, i ritmi sono troppo veloci: arriva la merce e domani serve la camicia, tutti vogliono costi più bassi e maggiori profitti, ma io continuo a pensare che anche in mestieri come il nostro servano tempo e programmazione». E i dazi? «Per noi che non facciamo export direttamente non c’è nessun problema, a differenza delle aziende per cui lavoriamo, che hanno avuto ripercussioni eccome».

Il contatto con Anton Giulio Grande

Bottone intanto si prepara al mezzo secolo di attività con qualche novità: il marchio è in espansione e tra i progetti c’è quello di coinvolgere Anton Giulio Grande nel ruolo di direttore creativo. Lo stilista calabrese potrebbe essere la figura ideale per incarnare al meglio il concetto di Made in Calabria applicato all’alta moda e inserire un’eccellenza dell’artigianalità calabrese nel più ampio contesto del Made in Italy fuori dai confini nazionali – per ora, come detto, le produzioni a marchio Bottone sono distribuite e commercializzate solo in Italia, dunque l’export potrebbe essere tra le prospettive future.
La manifattura ha già una solida rete di fornitori della materia prima (seta e cotone), per le stampe ci sono i distretti storici come la Toscana, Bergamo e Biella. Ma la vera sfida sarà sui numeri, pare di capire: padre e figlio parlano di quantità quasi decimate rispetto alla pre-pandemia, dai 15/20mila capi a stagione si è passati a 2/3mila. Ancora più lontani appaiono i tempi in cui venivano confezionate 40mila camicie al mese: partiva un tir a pieno carico che arrivava a raggiungere anche la Germania.

A dare fiducia però c’è proprio quel passato che racconta momenti gloriosi in cui da questo sperduto angolo di Calabria partivano capi marchiati Ralph Lauren, Yves Saint Laurent, Tommy Hilfiger, Miu Miu, Replay («Negli anni 90 ricordo che facevamo anche i pantaloni» ricostruisce Emo), persino le divise dell’Agip: 150mila capi realizzati grazie all’appoggio di una rete di pantalonifici sparsi tra Roggiano Gravina, Saracena, Spezzano Albanese ma anche a Girifalco. Era un vero e proprio distretto diffuso di cui oggi non resta quasi più traccia, un po’ come delle manifatture di seta e ginestra nel secolo scorso. Allo stesso modo, nei periodi di maggiore domanda – sempre nella fascia medio-alta di mercato – Bottone è arrivato ad avvalersi del supporto di 8 laboratori nel giro di 20 chilometri, per un totale di oltre 200 maestranze esterne, mentre a Orsomarso il massimo di addetti superò anche la quarantina di unità, quasi il doppio di quelle impiegate attualmente.

Tra pezzi unici e modelli famosi

In un mezzanino, Gianluca conserva un “archivio” con tutte le camicie appese a uno stand, sono i prototipi dei modelli poi commercializzati (foto sopra): «Guarda, questa l’ho vista esposta da Harrods a Londra, pensare che sia uscita da qui mi sembra ancora oggi impossibile…». Al pianterreno invece ecco le schede tecniche e il database dei lavori, unica concessione alla modernità, con qualche chicca: «Questa è la scheda delle camicie per Kobe Bryant, qui invece i dati e le misure delle divise della Nazionale di Lippi, Prandelli e Ferrara, anche questi erano modelli D&G, per tutto lo staff confezionammo circa 400 camicie: queste qui sono le misure di Gennaro Gattuso…».

Come risolvere (in proprio) un atavico isolamento

Continua il mini-tour in fabbrica con Gianluca che indossa una anonima t-shirt blu e sorride «sì, sono proprio come il calzolaio che cammina con le scarpe bucate…».
«Dopo il Covid – racconta – abbiamo avuto un boom di commesse inaspettato, migliaia di capi. Il problema è che ci sono poche maestranze, spesso non riusciamo a sostenere la domanda, noi siamo tra quelle piccole sartorie artigianali che utilizzano macchine antiquate, però lo facciamo per scelta».
Ma questo, fa capire Gianluca, non sarebbe neanche il problema più grande: «Di recente è venuto qui l’agente di Ermenegildo Zegna, contentissimo del nostro lavoro ma deluso dalla logistica, che è un gap, è inutile negarcelo: a Milano una camicia che esce da qui arriva in 48 ore se va bene, perché in Calabria, anche nell’area nord dove ci troviamo, non abbiamo il servizio del giorno dopo come da Salerno in su. Con la Sardegna e la Sicilia, siamo considerati dai corrieri una zona B»: un isolamento letterale che accomuna le tre regioni geograficamente, come se anche noi fossimo in mezzo al mare. «La Puglia, nostra concorrente diretta, è messa molto meglio, ha più aeroporti mentre qui si parla da anni dell’aeroporto di Scalea… Non si potrebbe rilanciare questa idea, non tanto per il turismo ma per il cargo dei grandi gruppi come Dhl e Tnt? Potrebbero giovarsi di una pista più lunga di quella di Lamezia Terme!».

Dalla confezione sartoriale al pronto-moda

Un ritardo reso ancora più invalidante dai tempi imposti dal mercato. La logica della domanda-offerta è spietata e la produzione, benché artigianale, deve comunque rispettare scadenze e consegne in uno scenario sempre più globale e competitivo: ora ad esempio incombe la collezione Primavera/Estate 2026, da consegnare massimo il 10 gennaio, a febbraio inizierà il lavoro per l’Autunno/Inverno 2026. «Siamo tagliati fuori – ammette Gianluca Bottone –. Spesso mi metto in macchina alle 3.30 di notte e lascio il pacco a Pontecagnano così arriva in giornata a Milano: è come se dovessi superare una barriera» aggiunge indicando il Pollino che sovrasta il capannone. «Da qualche anno c’era il servizio T10 a Rende ma è stato tolto».
I campionari hanno tempi strettissimi pur lavorando sul lungo periodo. E poi c’è il discorso dei prezzi e della concorrenza «alle stelle».
Si fa un gran parlare di Made in Italy eppure «la legge permette a un’azienda di realizzare il 90% della camicia in Bangladesh, Tunisia o Albania e qui applicare soltanto polsi, bottoni o colletti: da oltre 20 euro il costo precipita a 5, così una piccola fabbrica come la nostra non sarà mai competitiva».
Di contro, a Orsomarso arrivano periodicamente audit che fanno da nucleo di valutazione continuo per conto dei grossi marchi, che chiedono standard altissimi. È qui che la “lentezza” di un sapere depositato lungo cinquant’anni resiste e diventa punto di forza anche nei ritmi vertiginosi dei consumi del lusso. Una semplicità che viene riconosciuta, pure tra sacrifici enormi, e si impone. Dietro una camicia D&G da 18.500 € che Emo ci mostra con un atteggiamento tra l’orgoglio e l’incredulità possono esserci le mani di una anonima sarta calabrese della vecchia scuola: questo è forse il suo valore aggiunto.

«Papà non ha mai voluto abbandonare questa manifattura, nonostante le continue offerte – ci saluta Gianluca – . Lui è all’avanguardia e il suo obiettivo è aumentare le richieste per i capi Bottone1976 e soprattutto riuscire a starvi dietro, vorrebbe macchine automatiche ma per quelle servono numeri altissimi, oltre a una rete commerciale. I grandi brand ti danno sono il marchio e la visibilità. Per realizzare il sogno di fare il commercializzato, invece, serve un grosso investimento. Ma forse, alla vigilia del mezzo secolo e nonostante molte cose siano cambiate, la nostra forza è proprio il nostro essere piccoli». Come un bottone. (e.furia@corrierecal.it)

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