‘Ndrangheta a Roma, Alvaro e Carzo «due punte di diamante». I due boss «forti grazie ai legami con la Calabria»
Durante la requisitoria il pm Giovanni Musarò parla di forza «della struttura di vertice e non solo del paesino» e di «cordone ombelicale»

ROMA Le ha definite «due punte di diamante», una coppia d’attacco invocando il gergo calcistico. Così, in aula, il pubblico ministero Giovanni Musarò parlando di Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, i due principali indagati e imputati nel processo nato dall’inchiesta “Propaggine” della Dda di Roma.
Alvaro e Carzo
Durante la requisitoria, dunque, l’accusa ha definito Carzo «semplicemente indifendibile», anche se non «parla, ha scelto l’abbreviato, parla solo nelle intercettazioni». E poi c’è Vincenzo Alvaro, un personaggio «che si è un po’ romanizzato», ha detto Musarò in aula, ricordando che «quando Alvaro arriva a Roma è sottoposto a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, si fa trasferire a Roma dicendo “qui ho trovato lavoro”, e fa l’aiuto cuoco nel bar “California”, ma a distanza di anni la società verrà sequestrata e confiscata in via definitiva, perché lui era l’interponente», ricorda il pm. E lo stesso schema «si è ripetuto con Antonio Carzo». Ma chi è Alvaro? Si chiede Musarò. «È un soggetto di riconosciuto spessore criminale, punto di riferimento sul territorio romano per numerosi ‘ndranghetisti e per presentarlo, io vorrei utilizzare una conversazione in cui compare quello che è a Roma il suo braccio destro, sempre un romano, e cioè Marco Pomponio, è lui a dire tutto quello che non dice Alvaro per prudenza».
«Nel 2015 l’autorizzazione dalla Calabria»
Il pm Musarò, durante la requisitoria, torna su uno dei passaggi fondamentali del processo e cioè la costituzione del locale di ‘ndrangheta a Roma. «È stato dimostrato che nel periodo in cui Carzo era libero, cioè dal giugno del 2014 al 10 settembre del 2015, è stata ottenuta l’autorizzazione alla costituzione del locale di Roma, autorizzazione concessa dalla “Provincia”. Ma si tratta di una decisione così importante che non può essere presa semplicemente perché Carzo si presenta al cospetto di certi personaggi o manda un’ambasciata tramite soggetti che lui conosce, ma sarebbe stata una decisione sicuramente ponderata, valutata, e che si colloca in quell’arco temporale e la cui ratifica è stata ottenuta, secondo noi, dall’estate al settembre del 2015». E insiste l’accusa: «Carzo è stato in Calabria nell’estate del 2015, in due diversi momenti, mentre sull’estate del 2014 non siamo in grado di dirlo però dai controlli del territorio risulta che, quantomeno, a luglio c’è stato, nell’estate del 2015 è stato giù in due diversi momenti, dal 22 al 24 agosto e poi dal 4 all’8 settembre».
Carzo e la vicenda Polsi
Il pm Musarò metto l’accento su una questione importantissima, ovvero la presunta assenza di Carzo alla festa della Madonna della Montagna di Polsi, proprio in quel periodo in cui si sospetta sia stato creato il locale di ‘ndrangheta a Roma. E cita una intercettazione che, a suo dire, chiarirebbe tutto. «Lui dice “(…) come vai lì il giorno della festa ti fermano, scrivono appena ti baci, e dicono eccoli qua, quindi ormai siamo bruciati”» ricorda Musarò, e continua: «Quindi Carzo dell’intercettazione ricorda: “se non si sta attenti, si fa la fine che hanno fatto i siciliani”». Per l’accusa questi sono fatti che testimonierebbero il pieno inserimento di Carzo nelle dinamiche della ‘ndrangheta. «Non è uno scemo, sa che si deve muovere diversamente e, soprattutto, sa che da Polsi è meglio non passare perché sa che ad esempio, quella del 2009, è stata ripresa dall’inizio e alla fine con videocamere e microspie. Sono state arrestate tante persone in quell’occasione – ha sottolineato ancora il pm – ed è stato dimostrato, per la prima volta, sembrava quasi una leggenda metropolitana, che effettivamente, a Polsi, c’erano delle riunioni di ‘ndrangheta importanti».

«Legame con il vertice della ‘ndrangheta»
Ma qua noi «quando parliamo di collegamento organico e funzionale con la “Casa madre” parliamo e, a maggior ragione a Roma, di collegamento con la struttura di vertice e non solo col singolo paesino da cui possono venire gli imputati», ricorda ancora Musarò. E, in questa circostanza, cita la sentenza del processo “Minotauro” dove il gup aveva evidenziato la differenza esistente fra un locale di ‘ndrangheta regolarmente autorizzato e uno, invece, non è autorizzato dalla “Casa madre” che, in gergo, viene indicato come “la bastarda”. Ma il pm mette in guardia tutti: «Quando noi parliamo di collegamento organico e funzionale con la “Casa madre”, parliamo, a maggior ragione a Roma, di collegamento con la struttura di vertice e non solo col singolo paesino da cui possono venire gli imputati», e cita una conversazione di cui farebbero parte Antonio, Vincenzo e Domenico Carzo, Francesco Greco, Francesco Condina e Francesco Cutrì. «Quest’ultimo lo ritroviamo a casa Carzo, è un personaggio legato alla ‘ndrangheta di Sinopoli e Cosoleto e che, in quel momento storico, si trovava in provincia d Roma prima di essere condannato definitivamente nel processo “Cosa Mia” per associazione mafiosa e ricettazione», precisa il pm Musarò.
La “propaggine” e il “cordone ombelicale” con la Calabria
Ma perché per il pm è importante la conversazione? Lo piega lui stesso nel corso della requisitoria. «Ad un certo punto Carzo dice: “noi, guardate come siamo belli qua, abbiamo una propaggine di là sotto… come gli Spada si fanno i cazzi loro, noi ci facciamo i cazzi nostri”». E che vuol dire, chiede ancora il pm. «Vuol dire che esiste quello che Belnome chiama un cordone ombelicale fra l’articolazione territoriale della ‘ndrangheta, che è a Roma, e la ‘ndrangheta radicata in Calabria. Nel caso di specie, il locale di Roma è proprio una dimostrazione plastica di una proiezione di una delle famiglie di ‘ndrangheta più importanti che è, appunto, la famiglia Alvaro», precisa ancora Musarò. Durante la sua requisitoria, il pm della Dda di Roma spiega il senso di “cordone ombelicale”. «Se c’è un problema, alle spalle hai comunque un capitale umano e militare enorme perché una cosa è avere alle spalle famiglie storiche importanti, come è la famiglia Alvaro, un’altra cosa è avere famiglie meno importanti». E ancora, citando Belnome, spiega il pm Musarò: «Significa che Vincenzo Alvaro sta a Roma, è uno ‘ndranghetista, è un elemento di vertice, un uomo rispettato, ma la forza di intimidazione del locale di Roma dipende anche dal fatto che chi si rapporta con Vincenzo Alvaro, sa che quest’ultimo può fare affidamento soprattutto su quelli che sono in Calabria». (g.curcio@corrierecal.it)
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