Dalla Calabria all’Austria, i viaggi del «vino contraffatto» della ‘ndrangheta vibonese
Gli interessi del clan La Rosa nel commercio vinicolo: le etichette sulle bottiglie e il business da migliaia di euro

VIBO VALENTIA Merlot e vino pugliese, migliaia di bottiglie (originali e non) etichettate dalla Calabria e inviate in Sicilia, a Roma, anche fuori dall’Italia. Un vero e proprio business che consentiva alla ‘ndrangheta di guadagnare da un giro illecito di «vino contraffatto». È quanto emerge dalla sentenza del rito abbreviato del processo che riunisce le operazioni Maestrale, Olimpo e Imperium: 50 condanne inflitte a marzo dal gup Piero Agosteo, che nelle motivazioni si concentra anche sulle infiltrazioni ‘ndranghetista nel commercio del vino. In particolare, del clan La Rosa di Tropea, cosca di Tropea alle dipendenze dirette dei Mancuso di Limbadi.
Il modus operandi
Gli inquirenti hanno ricostruito il modus operandi della cosca, al cui vertice ci sarebbero i fratelli Antonio e Francesco La Rosa, condannati rispettivamente a 18 e 20 anni di carcere. I soldi derivanti dalle attività illecita del clan sarebbero stati «reinvestiti nell’acquisto di vini da reimmettere sul mercato». I fratelli vengono considerati «promotori e beneficiari» dei proventi, che sarebbero finiti nelle casse del clan. Il business sarebbe consistito nel «massimizzare i profitti» tramite il commercio del vino, distribuito in Sicilia, a Roma e anche in paesi esteri come l’Austria.
Un «collaudato meccanismo fraudolento»
La natura illecita del commercio emergerebbe, secondo la sentenza, dalle conversazioni captate in cui veniva stabilito di scaricare le bottiglie di vino «in un luogo sicuro». Da qui sarebbe partito dunque lo «smercio di vini contraffatti», applicando l’etichetta direttamente sulle bottiglia. Nelle intercettazioni captate La Rosa sottolinea «l’evidente difformità al palato» tra il vino originale e il vino contraffatto, sostenendo che «se stasera ti bevi l’originale e domani ti bevi l’altro si capisce…». Sa un’altra intercettazione sarebbero emersi anche i timori di La Rosa per il rischio di essere scoperti, prima di essere “rassicurato” sul fatto che «solo tremila delle diciottomila bottiglie commercializzate risultavano contraffatte». Migliaia di euro guadagnati, per il gup si tratta di un «collaudato meccanismo fraudolento», tramite il quale gli imputati «alteravano le indizioni geografiche e le denominazioni di origine di diverse partite di bottiglie di vino» per poi distribuirle nelle zone di Roma, Catania, Puglia e anche in Austria. (ma.ru.)
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