Addio a Giuseppe Milicchio, cronista con il cuore rossoblù
Il giornalista, voce storica del Cosenza calcio, è morto la notte scorsa. Nell’ultimo anno aveva collaborato con il Corriere della Calabria

Da quell’estate del 1997, quella della mia maturità, ogni volta che ripensavo a Padova, a quel gol inutile e romantico di Gigi Marulla, il novantesimo minuto che avrebbe dovuto salvarci e invece non ci ha salvati, mi veniva in mente lui.
Giuseppe Milicchio.
La sua voce impastata d’emozione, la radiocronaca che diventava febbre, cuore, appartenenza. Quel modo unico di raccontare il Cosenza, non come una squadra, ma come una condizione dell’anima. Sempre tra la gente, tra i tifosi, mai sopra di loro. Uno di noi, con il microfono in mano e la passione addosso come una seconda pelle.
Da oggi Giuseppe non c’è più, e la cosa fa male, malissimo.
Negli ultimi anni avevamo legato molto. Ed era stato lui a muovere i primi passi. Condividevamo le piccole gioie e i grandi dolori che solo il Cosenza sa regalare. Ricordo la sua telefonata, una domenica mattina di un anno fa: era felice, stava per iniziare un nuovo progetto, un programma per L’Altro Corriere Tv, il canale del mio giornale, il Corriere della Calabria. «Ho parlato fino a mo’ con Paola (Militano, ndr) e ci siamo messi d’accordo, andrò in onda tutti i lunedì».
“I fatti del calcio” era molto più di una trasmissione: era un modo per riportare il pallone alla sua essenza, con le storie e i personaggi di ieri e le analisi di oggi, con la schiettezza di chi non si piega ai compromessi. Per questo, probabilmente, era finito sul libro nero dei cronisti scomodi. Ma lui se ne fregava. Continuava a raccontare, a modo suo.
In tanti non lo sanno, ma negli anni ottanta era stato anche addetto stampa dei Lupi. Amava quella squadra come si ama una famiglia. Pochi giorni dopo la morte di Denis Bergamini, con un operatore andò a Roseto Capo Spulico. Voleva vedere, capire. Riprese il punto in cui – secondo la versione ufficiale di allora – Denis si sarebbe lanciato sotto il camion. «Non notai alcun segno di frenata o strisciamento di ruote», aveva raccontato un anno fa nel processo di primo grado in cui era stato citato come testimone.
Ci sarebbe tanto da dire su di lui, ma sarebbe riduttivo chiuderlo in una definizione. È stato e resterà per sempre un pezzo di storia rossoblù, ma anche un modo diverso di essere cronista. La voce dei Lupi quando non potevi vederli. Le sue parole ti facevano entrare in campo.
Penso a quando si è presentato alla Ubik in tuta, con la sua telecamera, la sua attrezzatura per riprendere la presentazione del mio libro. Mi aveva chiamato il giorno prima: «Francè, lo presenti domani il nuovo libro, vero? Vengo e riprendo tutto, ti faccio questo regalo». E lo ha fatto. Come qualche mese dopo, a un reading sullo stesso libro. È arrivato a sorpresa, con la solita telecamera, come se mi volesse dire che le cose importanti vanno custodite e non dimenticate.
Qualche mese dopo, a luglio, una nuova telefonata a tarda sera: «Ti devo dare una bruttissima notizia: il Monaco se ne sta andando. Preparati un bel pezzo per ricordarlo come si deve». Strano destino: oggi sono qui io, a scrivere di lui. E non so se da qualche parte, in qualche spazio che non so immaginare, sia contento di queste parole.
Pochi giorni fa, era il 7 novembre, stavo camminando su corso Mazzini. Pioveva, non avevo l’ombrello. Quella mattina avevo saputo che stava molto male. Ero stato tutto il giorno indeciso se chiamarlo o no. Alla fine mi ero rifugiato nell’alibi peggiore: tanto non mi risponderà.
Invece quella sera è stato lui a chiamarmi.
La voce era affaticata, spezzata. E io la ascoltavo paralizzato, senza sentire l’acqua che mi bagnava.
«Dammi qualche notizia sul Cosenza che sono fuori da tutto ultimamente. Dimmi com’è andata l’udienza Bergamini».
Gli ho detto qualcosa che non ricordo più. Poi ci siamo salutati. Gli ho raccomandato di tenere duro, e lui mi ha risposto con quel tono ironico e forte che lo distingueva: «Come sempre. Il tempo di rimettermi in forze, torno presto».
Era una telefonata d’addio. Lo sapevo, lo sapevamo entrambi.
Eppure continuava a parlare come se la vita non stesse finendo, come se la sua voce dovesse continuare a raccontare da un’altra parte.
Magari di nuovo a Padova, con la stessa voce che quell’estate del ’97, si ruppe per la gioia e poi per la disperazione. Quel gol di Gigi Marulla, segnato di testa al novantesimo, che doveva significare sopravvivenza e invece così non è stato. Come lui, come tanti di noi: testardi nel credere che un gol, una parola scritta su un giornale o una voce indimenticabile come la sua possano cambiare il destino.
Buon viaggio Giusè.
Il direttore del Corriere della Calabria Paola Militano e tutta la redazione si stringono con affetto alla moglie di Giuseppe Milicchio, Antonella e ai figli Antongiulio, Gianmaria, Emma e Claudia, ricordando con gratitudine le sue doti umane e professionali.
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