’Ndrangheta in Toscana: decenni di sottovalutazione e la necessità di un’azione più incisiva
Le parole del procuratore di Prato Tescaroli e le ultime inchieste confermano: le cosche fanno parte dell’economia sommersa e visibile della regione. Ma «serve più consapevolezza»

Non è una sorpresa e nemmeno una notizia nuova, ma un dato ormai sedimentato: la ’ndrangheta in Toscana non è più una presenza occasionale, bensì una componente silenziosa di un’economia che, in alcuni comparti, ne è diventata dipendente.
Nei giorni scorsi, il procuratore di Prato Luca Tescaroli ha ricordato quanto «negli anni ci sia stato un errore di sottovalutazione» delle presenze mafiose nella regione. Un’ammissione lucida, pronunciata a margine della presentazione di un volume sulla criminalità di genere, che fotografa con precisione la realtà di un territorio considerato a lungo immune e che invece da tempo fa i conti con la penetrazione organizzata dei clan calabresi, campani e stranieri, soprattutto nei settori dell’edilizia, del traffico di droga e dello smaltimento dei rifiuti.
«Le associazioni mafiose – ha spiegato Tescaroli – sono presenti in Toscana da anni. Sono dinamiche, si adattano alla realtà e la conoscono bene. Vi sono presenze significative di ’ndrangheta e camorra, accanto a mafie straniere come quella cinese. È un pericolo serio, concreto: serve consapevolezza e un’azione costante, perché se si abbassa la guardia, queste organizzazioni conquistano spazi sempre maggiori».
Parole che non arrivano in un vuoto investigativo. Solo nelle ultime settimane, un nuovo provvedimento giudiziario ha riportato al centro la questione dei legami tra imprenditoria e clan: lo scorso 18 settembre, la Guardia di Finanza di Firenze e Reggio Calabria, con lo Scico e la Dda reggina, ha disposto la sorveglianza speciale e la confisca di beni per 200 mila euro nei confronti dell’imprenditore Francesco Morano, detto Gianfranco, ritenuto contiguo alla cosca Bellocco di Rosarno.
Morano, originario di Taurianova ma attivo in Toscana, era già emerso nelle operazioni Magma, Erba di Grace e Buenaventura: condanne per traffico internazionale di stupefacenti e accuse di estorsione aggravata dal metodo mafioso, con tassi d’usura che superavano il 60% l’anno. Le indagini economiche hanno evidenziato un patrimonio sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati, comprendente un peschereccio, tre auto, un fabbricato e una ditta individuale.
Un radicamento costruito nel tempo
Non è un caso isolato. Dalla Lucchesia alla Versilia, da Prato a Pistoia, i cognomi delle cosche calabresi – Alvaro, Bellocco, Facchineri, Farao-Marincola, Gallace, Iamonte, Mancuso, Nirta, Raso – ricorrono in decine di fascicoli aperti dalla Dda di Firenze negli ultimi quindici anni.
Già nel 2018, il “Rapporto sui fenomeni di criminalità organizzata e corruzione” curato dalla Scuola Normale di Pisa e commissionato dalla Regione Toscana segnalava 78 clan attivi o in contatto con il territorio, il 48% riconducibile alla ’ndrangheta. I dati coincidono con l’andamento dei sequestri di droga: il porto di Livorno è, dopo Gioia Tauro, lo scalo con più sequestri di cocaina in Italia.
Tra il 2013 e il 2022, le operazioni si sono susseguite con cadenza costante. Nel 2013, i carabinieri arrestarono 13 persone tra Lucca e Pistoia, alcune legate ai Facchineri, per traffico di droga ed estorsione. Un anno dopo, la Dda di Genova scoprì un canale di cocaina dal Perù al terminal di Voltri riconducibile agli Alvaro, con basi tra la Lunigiana e la Versilia.
Il 2015 vide l’omicidio di Giuseppe Raucci, collegato ai Piromalli; due anni dopo, l’operazione Akuarius 2 ne chiarì i contorni: traffico internazionale e regolamenti di conti per forniture mancate.
Tra il 2017 e il 2018 si è poi registrato il salto di scala.
Con Becco d’Oca, Martingala e Vello d’Oro, la Guardia di Finanza e la Dia di Firenze portarono alla luce una rete finanziaria e imprenditoriale che intrecciava famiglie come i Nirta, gli Araniti e i Piromalli con società toscane dell’acciaio, della grande distribuzione e dell’edilizia, anche con diramazioni all’estero. Il valore complessivo dei sequestri superò i 100 milioni di euro.
Negli anni successivi, l’attenzione si è spostata sul ciclo dei rifiuti. L’operazione Keu – Calatruria (2021) ha coinvolto imprenditori dell’Aretino e della provincia di Firenze accusati di traffico illecito di rifiuti e inquinamento ambientale, con legami ai Gallace.


Sempre nel 2021, nelle indagini su appalti e subappalti nel settore del “movimento terra”, il procuratore capo di Firenze di allora Giuseppe Creazzo affermava che «il pericolo c’è ed è imminente. Non è più il caso di minimizzare perché così si fa il più grande favore possibile alle organizzazioni mafiose». «Le cointeressenze e il livello di infiltrazioni – aveva aggiunto – tra mafia e imprenditoria in Toscana sono tali «da aver raggiunto un livello preoccupante».
Nel 2022, un’ulteriore tranche dell’inchiesta dell’anno precedente ha documentato lo smaltimento illegale di scarti pericolosi del settore orafo e argentifero.
Dalla finanza all’ambiente: la nuova geografia criminale
Oggi la Toscana non ospita “locali” di ’ndrangheta formalmente riconosciuti, ma presenze imprenditoriali e finanziarie di lungo periodo. L’obiettivo non è il controllo del territorio in senso militare, bensì l’infiltrazione nei circuiti economici e nelle filiere produttive. L’edilizia, il tessile pratese, il turismo costiero e la logistica portuale restano i canali privilegiati per riciclare capitali o mascherare attività collaterali, spesso attraverso prestanome e piccole società.
Secondo il procuratore Tescaroli, la sfida oggi è «tenere ferma l’azione di contrasto» e impedire che la criminalità organizzata consolidi spazi di legittimità economica.
La Toscana, ha sottolineato, ha pagato il prezzo di una fiducia ingenua nelle proprie anticorpi: un’economia solida, un tessuto civico attivo e la distanza geografica dai luoghi tradizionali delle mafie. Ma i flussi di denaro – leciti e illeciti – viaggiano senza confini.
Le istituzioni e la consapevolezza mancata
La sottovalutazione denunciata da Tescaroli è stata, per anni, il principale alleato delle mafie. Solo di recente la regione ha consolidato strumenti di analisi, come l’Osservatorio regionale sulla criminalità organizzata, nato dopo il Rapporto Caponnetto del 2008 che già avvertiva: «La Toscana non è terra di mafia, ma la mafia c’è».
Da allora, quella frase si è rovesciata. Oggi la mafia è parte della terra, ne conosce i ritmi e le fragilità, soprattutto nei momenti di crisi economica o di emergenza.
Il messaggio di Tescaroli, dunque, non è allarmistico ma pragmatico: la Toscana è un laboratorio dove la ’ndrangheta non impone, ma propone. Si muove nei consigli di amministrazione, nei cantieri, nei porti, nei flussi finanziari, adattando il proprio modello alle opportunità offerte dal territorio. Per contrastarla servono consapevolezza e continuità investigativa. (f.v.)
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