Quella strana morte in casa Mancuso
Si era presentata con il figlio piccolo alla caserma dei carabinieri di Limbadi. «Devo parlare con il magistrato. Sono la moglie di Pantaleone Mancuso». Passano alcuni giorni e tenta di uccidersi bev…

Si era presentata con il figlio piccolo alla caserma dei carabinieri di Limbadi. «Devo parlare con il magistrato. Sono la moglie di Pantaleone Mancuso». Passano alcuni giorni e tenta di uccidersi bevendo acido solforico: morirà dopo 24 ore all`ospedale di Reggio Calabria. Il marito è l`astro nascente della famiglia mafiosa della provincia di Vibo Valentia. Adesso è stato aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio.
Sono i primi giorni di aprile quando la signora Santa Buccafusca, 38 anni compiuti da poco, decide di avviare un percorso collaborativo. I militari dell`Arma capiscono subito l`importanza della sua scelta e del terremoto che avrebbero provocato le sue rivelazioni. Tita, così veniva chiamata, è la moglie di “Luni Scarpuni”, 13 anni più grande di lei e boss incontrastato di Nicotera, uscito dal carcere dopo aver scontato la pena rimediata nel processo “Dinasty” e, al momento, sorvegliato speciale.
La donna viene fatta salire su una macchina dei carabinieri e accompagnata a Catanzaro negli uffici della Direzione distrettuale antimafia.
Parla con il magistrato, probabilmente di qualcosa che ha ascoltato a casa nei giorni precedenti. Qualcosa che l`ha sconvolta e che, seppur per qualche ora, l`ha spinta a rinnegare la vita che lei si era costruita negli anni, dal momento in cui ha sposato il marito, “uomo d`onore” della provincia di Vibo.
Tita aveva vissuto la `ndrangheta dal di dentro, aveva conosciuto la pancia dell`onorata società, sedeva allo stesso tavolo attorno al quale il suo uomo incontrava altri esponenti mafiosi. Siamo a poche settimane dall`omicidio di Vincenzo Barbieri, ritenuto dagli investigatori uno dei principali broker della droga al servizio della `ndrangheta vibonese, crivellato di colpi a San Calogero il 13 marzo.
C`è il massimo riserbo su cosa abbia riferito ai magistrati Tita Buccafusca, ma non è escluso che abbia rivelato elementi utili a fare luce sull`unico fatto di sangue che, negli ultimi mesi, ha coinvolto la cosca retta dal marito assieme al cugino, Cosma Mancuso conosciuto con il nome di “Michelina”.
Entrambi, infatti, sono considerati pezzi da novanta della famiglia mafiosa, una costola della cosiddetta “cosca maggiore”, guidata dall`anziano mammasantissima Antonio Mancuso, attualmente agli arresti domiciliari.
Un`organizzazione criminale, quella guidata da Michelina e Luni, che – scrivono gli inquirenti nelle carte dell`inchiesta “Odissea” – «domina in modo incontrastato nel suo ambito territoriale, controllando o meglio soggiogando le più significative attività economiche e imprenditoriali, soprattutto nel settore turistico, le quali di fatto vengono ad essere interamente gestite dai vari componenti del gruppo in modo funzionale agli interessi e agli obiettivi della criminalità organizzata».
Una cosca che «è riuscita ad infiltrarsi anche nel settore della pubblica amministrazione», pilotando l’assegnazione di gare e appalti in modo da beneficiare, in modo diretto e indiretto, del fiume di finanziamenti pubblici. Più grave ancora è la situazione delle varie realtà produttive e commerciali del Vibonese le quali «appaiono dominate dal potere mafioso che annienta la libertà di iniziativa economica privata, inquina la gestione della cosa pubblica, in una parola impedisce il reale sviluppo del territorio, le cui risorse naturali, lungi dall’essere patrimonio della collettività, in realtà diventano strumento di arricchimento e consolidamento dei componenti del gruppo».
In un momento storico per la `ndrangheta vibonese in cui quasi tutti i boss sono liberi o agli arresti domiciliari, una donna stava minando la tranquillità del clan.
Ritorniamo ai primi giorni di aprile: stando ad alcune indiscrezioni, quel pomeriggio, mentre l`aspirante collaboratrice si trovava negli uffici della Dda di Catanzaro, alla caserma di Limbadi si sarebbero recati alcuni familiari dei Mancuso per informare i carabinieri che, da alcune ore, non avevano notizie di Tita Buccafusca e per avvertirli, nel caso in cui la moglie di Scarpuni avesse manifestato l`intenzione di collaborare, di non credere alle sue parole in quanto avrebbe sofferto di problemi psichici e, perciò, non era attendibile.
Quella stessa sera, la signora Buccafusca fece rientro a casa e la sua collaborazione si interruppe sul nascere.
Dopo poche settimane, il 16 aprile appunto, Tita si trovava a casa, in via Murat numero 1. Voleva farla finita e ingerì acido solforico. Era ancora viva quando venne soccorsa e accompagnata all`ospedale di Vibo Valentia. Ma le sue condizioni apparivano comunque gravi e si rese necessario il trasporto d`urgenza ai Riuniti di Reggio. A due giorni dal folle gesto, la donna morì in riva allo Stretto dove il sostituto procuratore Mario Venditti ha aperto un fascicolo contro ignoti che, da subito, fu trasmesso alla Procura di Vibo Valentia. Il sospetto è che qualcuno potesse averla spinta al suicidio per scongiurare ulteriori tentativi di collaborazione. Quel fascicolo (il numero 1006/2011), adesso, è in mano al sostituto procuratore Santi Cutroneo che ha fatto eseguire l`autopsia sul corpo di Tita Buccafusca. Il magistrato e i carabinieri, guidati dal maggiore Carrara, vogliono vederci chiaro. Se è pur vero che la donna aveva in passato tentato togliersi la vita, è altrettanto vero che, pochi giorni prima del 16 aprile, la moglie del boss aveva deciso di collaborare e poi, all`improvviso, si era pentita di essersi rivolta alle forze dell`ordine. Rimane un mistero cosa abbia spinto Tita Buccafusca a rivolgersi allo Stato per poi rinunciare a quel salto che le sarebbe valso il titolo di “collaboratore di giustizia”. Una liberazione per chi decide di uscire definitivamente da quel mondo. Un`onta per chi, pur essendo un autorevole reggente della cosca Mancuso, si ritrova il pentito “in casa”.
A far rabbrividire è la tempistica del suicidio che fa il paio con il contesto mafioso in cui si sono svolti i fatti. Troppo poco, comunque, per la Procura di Vibo. Il sostituto Cutroneo non ha iscritto nessuno al registro degli indagati. Ancora.