Luciano Lo Giudice: «Mai chiesti favori a Cisterna»
REGGIO CALABRIA «Mi volevano convincere a collaborare». Il presidente del Tribunale, Silvia Capone, ha interrotto le dichiarazioni spontanee del presunto boss Luciano Lo Giudice che, in aula bunker…

REGGIO CALABRIA «Mi volevano convincere a collaborare». Il presidente del Tribunale, Silvia Capone, ha interrotto le dichiarazioni spontanee del presunto boss Luciano Lo Giudice che, in aula bunker, per oltre mezz`ora si è dichiarato innocente raccontando anche alcuni retroscena che, a suo dire, stanno dietro i suoi guai giudiziari.
Tre i concetti importanti che Lo Giudice ha espresso dopo il controesame del vicequestore aggiunto Francesco Giordano, dirigente della V sezione della squadra mobile. In particolare, l`imputato principale del processo contro la cosca Lo Giudice contesta le accuse mosse nei suoi confronti dal fratello Nino e da Consolato Villani, i due collaboratori di giustizia che hanno reso dichiarazioni alla base dell`inchiesta della Direzione distrettuale antimafia.
«Con la cattura di Condello non c`entro niente e non ho mai chiesto favori né al capitano Spadaro Tracuzzi né al dottore Cisterna». Prima che lo interrompesse il presidente del Tribunale, Luciano Lo Giudice stava per raccontare tutte le pressioni subite affinché anche lui vuotasse il sacco.
Ma andiamo con ordine: «Non ho mai chiesto a Nino Lo Giudice – afferma – informazioni che potessero servire per arrestare Pasquale Condello. Mio fratello non ha mai conosciuto il maresciallo Maesano che io contattai quando vidi in televisione che fu arrestato Condello perché una volta lui mi disse che, dopo la cattura del latitante, sarebbe andato in pensione. Era una telefonata che feci per scherzare con Maesano».
Luciano Lo Giudice spiega in aula anche i continui controlli amministrativi subiti: «Ho telefonato al capitano Tracuzzi perché tre agenti dell`ufficio di Giordano, guidati dall`ispettore Iachino, vennero a farmi una perquisizione con un mandato della dottoressa Ronchi. Hanno girato tutto ma non trovarono nulla. C`era una cassaforte con delle armi che erano di Idotta. Mi dissero: “Tu mi dici dov`è tizio e io blocco la perquisizione”. Io gli ho risposto: “Faccio finta di non aver sentito”. Mi portano in questura e mi dicono che mi devono arrestare. In via Missori, mi sequestrano i registri del bar e io ho chiamato il capitano Tracuzzi per tutelarmi dagli abusi che mi stava facendo Iachino».
E ancora: «Un giorno l`ispettore Nicosia si reca per un controllo amministrativo al bar “Caffé Garibaldi” che io avevo già venduto. Non fa nessun controllo e viene al bar “Peccati di gola” facendo il bullo. Anche in questo caso ho chiamato Tracuzzi per tutelarmi e non per chiedere favori per il controllo. Né a lui né al dottore Cisterna. L`ispettore Nicosia voleva essere picchiato per arrestarmi e fare un favore a qualche collega della questura. Il commissario Giordano parla di timori e di preoccupazioni ma io non ne ho mai avuti, tanto che la settimana successiva ho ricevuto un altro controllo da parte della guardia di finanza che si è concluso con un sequestro amministrativo, una multa pagata e senza bulli».
Luciano Lo Giudice, inoltre, contesta anche l`accusa di detenzione di armi che, secondo gli inquirenti, sarebbero i famosi “mandolini” di cui si parla nelle intercettazioni: «I mandolini di cui si parla sono strumenti musicali e sono a casa mia, in via Missori. La polizia non li ha voluti vedere».
«Mi sono arrabbiato con mio fratello Nino – aggiunge – perché gli avevo lasciato dei soldi quando mi hanno arrestato, ma lui pensava di fare il playboy con la marocchina (l`amante del collaboratore di giustizia). Con i miei risparmi si è divertito, alla faccia mia. Quello del mio arresto, per Nino Lo Giudice, è stato l`anno più bello della sua vita perché con i miei risparmi si è divertito con la marocchina. Gli immobili che mi hanno sequestrato non appartengono a nessuna cosca, ma sono miei e sono il frutto di mutui bancari. Sono indebitato con le banche per oltre un milione di euro. Con la nautica Spanò non c`entro nulla, così come con l`Ambrosiana Motori. C`è un filo logico agli abusi che mi hanno fatto».
Il presunto boss, inoltre, cerca di spiegare qual è stato il rapporto con l`ex viceprocuratore della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna, il quale era stato indagato dalla Direzione distrettuale antimafia che, nei mesi scorsi, ha chiesto l`archiviazione del fascicolo nei suoi confronti: «Dopo il mio arresto, nel novembre 2009 ho scritto una missiva a Cisterna per dirgli che non ho fatto nulla. Dopo di che chiedo a mia moglie di contattare l`avvocato Taormina. Lei e mio fratello Nino vanno a Roma ma non fanno nulla dopo essersi accorti che erano seguiti dalla polizia. Ho anche rimproverato mia moglie per questo. A febbraio la mando dal dottore Cisterna per dirgli che mi stanno facendo queste accuse, per capire se sono vere e se ho commesso qualcosa. Non per farmi scarcerare. Quando mi hanno trasferito a Tolmezzo, ho passato le pene dell`inferno. Arrivato a Reggio per il processo trovo in carcere la Ronchi e Prestipino che volevano farmi un interrogatorio. Mi sono avvalso della facoltà di non rispondere e Prestipino se n`è andato molto nervoso da lì. Sono tornato da Tolmezzo con quattro vertebre della schiena schiacciate. Ancora ho problemi e ho spiegato che non mi fidavo dell`infermeria di Tolmezzo. A settembre si è pentito Villani e mi arriva l`ordinanza per 416 bis (l`arresto per associazione mafiosa, ndr). Pensavo che ci fossero solo le dichiarazioni di Villani e, invece, il 14 ottobre (2010, ndr) mi portano al carcere di Rebibbia dove mi avvisano che c`è il mio avvocato. Arrivo nella stanza e, invece, trovo il dottore Renato Cortese. Mi dice che mio fratello si è pentito e vuole vedermi. Gli rispondo: “Non c`è problema”. Mi portano in un`altra stanza dove non c`era mio fratello ma Pignatone, Prestipino e un altro poliziotto. Mi volevano convincere a collaborare. Ho chiesto che venisse chiamato il mio avvocato e mi hanno detto: “Ce l`abbiamo noi l`avvocato”. Mi presentano una donna e gli chiarisco che non ho nulla da collaborare. Dicono che il collaboratore Nino Lo Giudice mi accusa di portare armi dall`Austria. A quel punto mi avvalgo della facoltà di non rispondere dicendo che il mio avvocato era un altro. Pignatone, quindi, alza la voce e mi dice: “Tuo fratello ti accusa”. E io gli rispondo: “Ma voi andate appresso a Nino Lo Giudice e a quell`altro morto di fame di Villani?”. Di tutte le cose per cui mi accusano non c`è un riscontro».
Prima di lui, anche l`imputato Antonio Cortese, ritenuto il “bombarolo” della cosca Lo Giudice, ha reso dichiarazioni spontanee e si scaglia con il collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice, detto il “Nano”: «È un burattino manovrato. Dice che portavo armi dall`Austria, ma io non ci sono mai stato in Austria. Leggo i verbali e mi domando: ma la dottoressa Ronchi dice le cose a Lo Giudice o Lo Giudice alla Ronchi?».
Cortese parla del suo ex amico oggi diventato collaboratore di giustizia: «Ha sempre lavorato, era molto devoto alla famiglia. Me lo ricordo come una persona paurosa e oggi è cambiato e non riesco a capire il perché. Dichiara quello che veniva riportato sui giornali e niente più. Hanno detto che io ero latitante e, invece, sapevo già che si era pentito perché me l`ha detto la sua compagna Laila che, quando ero in Romania, mi ha chiamato per dirmi che avevano arrestato a Nino. Nessuno dei suoi figli mi ha risposto al telefono e quando la richiamo mi dice che le ha telefonato Nino dicendole: “Qualsiasi cosa hai bisogno rivolgiti a Renato Cortese”. Mia moglie mi ha telefonato dicendomi che sono venuti i poliziotti a casa. Ho chiamato l`avvocato, organizzo il mio rientro e prendo un appuntamento. Hanno detto che ero latitante ma io non ho mai fatto male a nessuno».
Antonio Cortese, imputato a Catanzaro anche per le bombe del 2010 alla Procura generale di Reggio, punta il dito pure contro il collaboratore Villani: «Mi accusa di tante cose di cui non sono a conoscenza. Ho lavorato con lui qualche mese nel 2007 al banco delle angurie del signor Lo Giudice. Ho appreso che lui era stato in carcere e che era stato inc
riminato per l`omicidio di due carabinieri. Ha detto che si è pentito perché, altrimenti, non poteva prendere i suoi figli in braccio. Non pensa che qui ci sono padri di famiglia che non lo possono fare».