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Cultura a Cosenza? In queste rovine non c’è desolazione

Ho letto con attenzione l’articolo Il Maxxi, “Viva” e la cultura secondo noi, a firma Giuliana Misasi (dirigente del settore Cultura e Spettacolo – Comune di Cosenza), Francesca Conti (progettista di…

Pubblicato il: 29/12/2012 – 15:54
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Cultura a Cosenza? In queste rovine  non c’è desolazione

Ho letto con attenzione l’articolo Il Maxxi, “Viva” e la cultura secondo noi, a firma Giuliana Misasi (dirigente del settore Cultura e Spettacolo – Comune di Cosenza), Francesca Conti (progettista di Viva) e Anna Mattirolo (direttore Maxxi Arte), apparso sul sito del Corriere della Calabria in data 21 dicembre. Nonostante il tono elegante, impersonale e piuttosto generalista, mi pare essersi trattato di una chiara risposta polemica al dibattito stimolato dagli interventi del sottoscritto, ospitati nei giorni scorsi da Il Quotidiano della Calabria, il manifesto, sulle pagine web dello stesso Corriere della Calabria e numerosi altri siti locali, che si occupano a vario titolo di arte e cultura. Nei quali si chiedeva conto sostanzialmente di tutta una serie di disfunzioni e di dinamiche decisamente poco chiare, che hanno accompagnato la preparazione e lo svolgersi del Viva Lab 2012 a Cosenza.
Dibattito che si è poi dipanato, ahimè, più che altro sulle pagine dei social network e attraverso qualche rarissimo contro-intervento sui giornali locali, ma che non ha, almeno per il momento, generato troppo fermento in città e in regione, né fra i cittadini – che hanno praticamente ignorato il festival, il suo prologo e le polemiche che ne sono seguite – e neppure fra i rappresentanti delle istituzioni direttamente interessate. Né tantomeno fra gli addetti ai lavori, che preferiscono evidentemente navigare a vista, evitando di sbilanciarsi troppo e mantenendo una rotta priva di rischi eccessivi, magari in attesa che il mare torbido torni a riempirsi di pesci dorati da intercettare nelle proprie reti sfilacciate e obsolete.
Per quanto vorrei evitare di trasformare la faccenda in una mia personale guerra santa contro gli organizzatori e i referenti istituzionali dell’ormai noto progetto (e dal numero di persone che mi hanno contattato privatamente o mi hanno fermato per strada in questi giorni, per chiedermi più specificamente di che si trattasse, credo di aver contribuito non poco a codesta notorietà …), non posso esimermi, a questo punto, dal fare alcune considerazioni generali in merito all’intervento citato in apertura.
Ho piacere di constatare che gli organizzatori – non prima di aver lamentato la congestione temporale e la fretta che ne hanno caratterizzato la partenza, condizionandone non poco la realizzazione e l’efficacia – chiariscano una volta di più quali fossero le intenzioni programmatiche del progetto. Le quali peraltro apparivano già chiarissime dagli ormai celebri incontri preliminari, con i quali  pare si sia cercato di interfacciarsi con le realtà cittadine per censirle (!), metterle in rete (!!) raccoglierne il consenso – ed i servigi – senza preoccuparsi di conoscerne più a fondo il contesto e le vicissitudini che le portano ad operare quotidianamente su un territorio arduo e brullo, ma anche piuttosto vivace e concreto, lontano anni luce dal mondo pettinato e patinato dell’arte contemporanea e dal suo circo mediatico sempre uguale a sé stesso; a prescindere dall’angolo remoto di pianeta in cui si trovi ad atterrare e a tentare di dispiegare con potenza geometrica la sua forza fantasmatica.
Sono lieto di apprendere che attraverso tali pratiche Cosenza sia diventata finalmente, e dopo secoli di Storia: «un nodo del “fare cultura”». Certo le reti e i nodi – che ne definiscono e in qualche maniera ne identificano la composizione relativa –  sono per definizione delle realtà rizomatiche e non delle gerarchie arborizzate. Non corpi centrali che emanano la loro linfa vitale verso le periferie e “le aree esterne”, bensì  trame complesse e interattive nelle quali un elemento qualsiasi – seppure apparentemente liminale o marginale – ha la capacità di influenzare ed essere influenzato da qualsiasi altro, dando vita a configurazioni stratificate e proteiformi e a straordinari miscugli e ibridazioni. Non si limitano a subire i percorsi soggettivanti e centralistici di chi vorrebbe imporre forme e sostanze rigidamente standardizzate e povere di prospettive, per quanto elaborate e articolate possano apparire a una vista distratta. Ma qui sto scivolando nella filosofia e non vorrei tediare i lettori né i miei diretti interlocutori. Pare che qui si tratti invece di andare ad incidere sulla «filiera legata all`apprendimento» (concetto inquietante, figlio dell’economicismo irriducibile che domina incontrastato la scena del nostro tempo) innescando dei processi virtuosi «con la consapevolezza che dal 2014 al 2020 le aree interne sono un tema che caratterizzerà le politiche nazionali ed europee» (leggi: ben coscienti che nei prossimi sette anni ci sarà un’altra camionata di denaro pubblico, sulla quale si potrà contare solo a patto di operare nelle famose aree esterne e periferiche). Eh sì … la filosofia teorica sta molto al di qua da certi schemi di pensiero.
Apprendo che «il festival ha introdotto un elemento forte di innovazione», attraverso «la sperimentazione con i social media». Con la creazione ad esempio di una pagina face book, che ha raccolto più di 400 contatti, sugli oltre 800 milioni di potenziali internauti che quotidianamente lo usano e comunicano attraverso il network! Oltre a un gruppo (sempre su fb) che conta la presenza di poco più di 100 persone (!), nonostante un’area urbana la cui popolazione supera largamente le 200.000 unità e l’ostinata pretesa di aver stabilito un «rapporto con quasi 60 associazioni indipendenti internazionali in tutta Europa, con cui relazionarsi e fare progetti». «Contatti che non esistevano prima» ci assicurano gli organizzatori. E che «ora che il festival è finito, (…) diventano uno strumento a disposizione degli operatori culturali: un`agenda digitale comune dedicata alle iniziative culturali dell`area di Cosenza». «Realizzando – addirittura! – quel coordinamento dei calendari tanto invocato ma che sembrava impossibile da realizzare». Chapeau!
«Un sistema che permette di dialogare e capire in tempo reale il sistema di preferenze del pubblico» e qui sinceramente – alla luce della partecipazione non proprio massiva alla due giorni di VIVA – non si capisce proprio se queste affermazioni siano dettate da una reale e allucinata ingenuità che finirebbe quasi per ispirare un moto di tenerezza, o se si voglia continuare a trattare il pubblico e gli operatori culturali della città come un branco di sprovveduti, descrivendo loro un panorama magicamente trasformato – che però non sembra avere alcun riscontro oggettivo – davanti a una realtà di dinamiche immutate ed irrisolte, che non soltanto gli stessi continueranno a vivere sulla propria pelle giorno dopo giorno, ma risultano essere tanto delicate e scarsamente controllabili da impegnare già una mole inenarrabile di energie creative (quelle sì) e lavoro concreto ormai da diversi decenni. Anche solo per essere decodificate ed affrontate, non dico per cominciare a lavorarvi su concretamente e cercare di risolvere.
Davvero curioso poi che le piattaforme on-line – pagine e gruppi fb, ma anche il sito www.vivacosenza.it – che ci si dice pronti a testimoniare la vivacità e il fiorire di iniziative create nell’ambito del progetto, testimonino oggi più che altro un florilegio di cene, aperitivi e momenti conviviali assortiti – tutt’al più qualche intervista ai performer sul significato delle loro performance –, tutti risvolti relazionali apprezzabilissimi, per carità! ciò nondimeno pare strano non risulti alcuna documentazione diretta delle performance vere e proprie: problemi di copyright o tentativo di glissare sulla reale portata di un successo solo presunto?
Certo «Viva ha puntato sui fattori (…) di maggiore resilienza». E se intendiamo la resilienza dal punto di vista ingegneristico, si può dire senz’altro che la città di Cosenza abbia resistito all’urto senza spezzarsi. Anzi, senza emettere la sia pur minima vibrazione direi. Se ne volessimo invece discutere sotto l’aspetto ecologico, non c’è dubbio che il “sistema Cosenza” sia stato in grado – a seguito del passaggio dell’«esercito di VIVA» (!) – di ripristinare letteralmente la sua omeostasi, senza che gli venisse provocato alcun deficit specifico, a parte l`erosione della consistenza di risorse che il sistema stesso sarebbe in grado di produrre. Ma spero che la propria resilienza specifica Cosenza sappia dimostrarla soprattutto sotto il piano psicologico, uscendo rinforzata nell’esperienza e trasformata in meglio da vicende degradanti e fallimentari come quella di cui ci stiamo occupando.
Non posso che inchinarmi all’evidenza dell’affermazione «che, utilizzando fondi pubblici, non sia sufficiente fare ma è altrettanto importante come si fa, e il come deve essere impostato sulla massima inclusione e sostenibilità che si riesce ad attribuire a ogni azione». È parte di quello che vado dicendo sin dal principio di questa vicenda.
Ma mi è soprattutto molto chiaro come «Viva è un progetto voluto dall`Amministrazione, che ha ricercato un progettista che se la sentisse di giocare una partita praticamente persa, per i tempi con cui si prospettava prima la candidatura e poi l`attività». Amministrazione che peraltro appare essere stata piuttosto latitante durante le settimane organizzative e lo svolgimento del festival e, sebbene si possa ben capire perché gli stessi partner nazionali abbiano difficoltà ad ammetterlo, rilasciando comunicati congiunti per ovvi motivi di opportunità politica e cortesia istituzionale, gli effetti di questa gestione approssimativa e grossolana sono stati sotto gli occhi di tutti.
Ma «performance e partecipazione possono rappresentare argomenti formidabili per rompere la retorica che domina spesso, soprattutto da parte di chi decide di non esserci».
A nessuno salta in mente di chiedersi come mai questo evento, in questo luogo e in questo momento, sia risultato così privo di connessioni con una realtà vivace e dinamica che pure ci si dice aver cercato di far affiorare, conosciuto e addirittura stimolato profondamente nella fase preparatoria. Forse qualcuno, o anche più di qualcuno, ci avrà pure pensato, ma avrà preferito archiviare la questione come non pertinente. E dire che tutto il percorso artistico di Tania Bruguera – la cui presenza è servita ad avallare l’intera operazione – può dirsi basato proprio sulla profonda percezione e sul tentativo di ricomposizione di questo scarto tra spazio dell’arte e nuda vita!
Scopo precipuo e caratteristica essenziale dell’arte, tanto più di discipline politiche per eccellenza come è il caso delle arti performative, è quello di piegare il tempo, aprire spazi e creare-luoghi, fisici e mentali, concreti e immaginifici, attivando dinamiche e traiettorie irrisolvibili e irriducibili alle logiche burocratiche e manageriali, che troppo spesso, oggi come ieri, ne condizionano il dispiegarsi e la diffusione. “Un atto radicale che accomuna se stessi al mondo, incorporando il corpo alla percezione di esso (…) e tale sensazione risulta necessaria e ineluttabile, soprattutto oggi, in questa epoca di crisi incondizionata in cui gli espedienti creativi di entertainment non hanno più ragione di essere” (Se l’arte scorre insieme al sangue – Teresa Macrì – il manifesto 18/12/2012, p.12).
Ma questo difficilmente poteva avvenire per mezzo di un evento insopportabilmente calato dall’alto, che aveva solo fretta di attuare le procedure minime necessarie a percepire i finanziamenti, prescindendo dalla carne viva e dalla temperatura specifica di un tessuto sociale e culturale straordinariamente ricco, articolato e contraddittorio, che ha gettato uno sguardo, ha percepito l’inganno ed è passato oltre. Viene in mente ciò che ha scritto recentemente Christian Caliandro (giovane storico dell’arte e studioso di Cultural Studies, vincitore nel 2006 della I edizione del Premio MAXXI-Darc per la critica d’arte contemporanea italiana), parlando dell’ultima Biennale de L’Avana (alfabeta2, n°21, luglio-agosto 2012, p.31), ironia del caso, la città d’origine di Tania Bruguera:  “(…) In queste rovine non c’è desolazione. Sono rovine «vive», per così dire, che se ne fregano del fascino proiettato verso gli sguardi esterni, che resistono alle semplificazioni da cartolina e che conducono la loro esistenza insieme alle vicende umane che ospitano. Questa è una città realista. Ma il mondo dell’arte non lo è, e non può dunque conoscerla se non molto superficialmente. Semplicemente, non gli interessa conoscerla. Fa il suo numero, ignorando ed essendo ignorato, e poi va via per installarsi in qualche altro posto. (…) Questa tribù irrispettosa, e tutto sommato pacchiana, continuerà a vagare per il globo, per posti con cui non ha pressoché nulla in comune. Finché qualcosa di nuovo e di grosso non interverrà a modificare radicalmente lo scenario”.

P.S. L’articolo contiene da ultimo una paradossale notazione: «Da quanto scritto, Manolo Muoio è stato presente a molte delle attività e delle occasioni create dal progetto, anche agli Stati Generali della Cultura del 10 dicembre, a festival finito. Non ci vuole molto a presentarsi e parlare faccia a faccia, senza che questo escluda poi il farlo pubblicamente». Singolare affermazione nell’epoca della comunicazione globale digitale. Insomma, un po’ come un attore risentito che se la prenda con un critico non proprio magnanimo, per non avergli illustrato la sua recensione negativa direttamente nel foyer del teatro, prima di darla in pasto al pubblico… Ciò nondimeno, gli organizzatori sembrano riconoscere al mio argomentare, conoscenza approfondita e cognizione di causa. E già … non erano mica parole portate dal vento.

* psiconauta

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