REGGIO CALABRIA «Giovanni Zumbo lo conosco da quando eravamo ragazzini. Conosceva anche i fratelli De Stefano, soprattutto Carmine, da sempre». Che l’ex commercialista e custode di beni confiscati, nonché ex antenna dei servizi, fosse uso ad avere rapporti più che amichevoli con la galassia composita della `ndrangheta reggina, è stato messo in evidenza in più di un procedimento. Ma se nel troncone abbreviato del processo “Archi-Astrea” era emerso in modo cristallino il suo ruolo di professionista al soldo dei Tegano e in “Piccolo Carro” sono stati esaminati in dettaglio i suoi rapporti con il boss Peppe Pelle e la cosca Ficara, mai – se non tra le righe – erano emersi i contatti di Zumbo con il potentissimo clan De Stefano.
È ancora il pentito Nino Fiume a svelare particolari inediti della rete di relazioni, amicizie e contatti che il clan di Archi aveva tessuto attorno a sé. Una trama fitta di insospettabili, di «persone riservate» – così le definiva Giuseppe De Stefano – che agli arcoti avrebbe garantito per anni appoggio e protezione. Una rete in cui era presente anche Giovanni Zumbo. «Lui cercava di capire come funzionavano le tecniche dell’associazione, era uno che si `nnacava – dice il pentito, che deve ricorrere al dialetto per spiegare quanto l’ex amministratore di beni confiscati si vantasse dei suoi rapporti con i De Stefano. «Lui aspirava a entrare nel clan, ma non era affidabile, era rimasto in bilico su svariate situazioni, sapeva chi eravamo, vedeva armi, aveva gestito varie situazioni fra i giovani, ma non era mai stato affiliato. Era un punto di riferimento». E se a legare Zumbo al clan di Archi è stata – almeno per un periodo – la parentela acquisita grazie alla storia che la quasi coetanea zia, Mariolina, avrà con Peppe De Stefano, la sua fedeltà al casato di Archi rimarrà immutata anche al termine di quella relazione.
PROCESSI AGGIUSTATI E CONFISCHE IN FUMO «Per lo zio Peppino questo ed altro» diceva Zumbo, nei ricordi – vividi e dettagliati – di Fiume, che non ha difficoltà a raccontare i particolari di quel sequestro disposto dall’autorità giudiziaria mandato in fumo dal chirurgico intervento di Giovanni Zumbo e dell’avvocato Mario Giglio. «I De Stefano avevano una causa per il sequestro dei beni, la seguiva l’avvocato Grillo e il giudice era Giglio (cugino dell’avvocato, ndr) e a latere c’era Foti. Tramite Pino Scaramozzino, che era amico dell’avvocato Giglio, e tramite Gianni Zumbo avevamo già tutte le carte di quello che si doveva discutere e la cosa andò bene. Il fatto è che Zumbo aveva un incarico che gli permetteva di accedere ovunque, di avere le carte di tutto. Lui non solo si vantava di essere amico del giudice Foti, ma poteva anche accedere a tutti gli incartamenti». Documenti che – racconta Fiume – l’allora amministratore di beni confiscati non solo poteva visionare, ma anche «prendere, spostare».
«Zumbo era uno a disposizione», chiarisce il collaboratore. Ma all’epoca, a mettersi all’opera su richiesta del clan è anche l’avvocato Mario Giglio, attualmente indagato per bancarotta nell’inchiesta che ha mandato dietro le sbarre l’ex consigliere comunale del Pdl, Dominique Suraci, considerato il rappresentante politico e imprenditoriale della cosca Tegano. L’avvocato non è l’unico della famiglia a essere finito nei guai per i rapporti con i clan che gravitano o gravitavano attorno ad Archi: il fratello medico Enzo e il cugino giudice Vincenzo Giuseppe sono stati condannati rispettivamente a 8 anni e 4 anni e 7 mesi di reclusione nel processo milanese contro la cosca Lampada, famiglia satellite dei Condello. Tutte inchieste che documentano rapporti più o meno recenti con gli arcoti, ma che per Fiume risalgono addirittura al «98- 99». E che come tali aveva messo a conoscenza dell’autorità giudiziaria già dalle prime fasi della sua collaborazione, iniziata quasi un decennio fa.
«Il giudice che aveva in mano la causa era il cugino di Giglio – sintetizza il pentito – mentre Zumbo poteva arrivare a Foti». Una cortesia per la quale l’avvocato, poco dopo presenterà il conto: «Ci chiese l’appoggio elettorale per l’Udeur di Mastella – ricorda Fiume, che nonostante rivendichi con forza il suo essere collaboratore di giustizia, continua a parlare al plurale come quando il suo nome era sinonimo di cosca De Stefano. «Se mi date questi voti – ci diceva – ci sono 20 posti di lavoro alla rivista Postalmarket».
LA REGGIO BENE E LE «PERSONE RISERVATE» Ma Giglio e Zumbo non erano gli unici soggetti «a disposizione». Al contrario, «Carmine e Giuseppe De Stefano non avevano bisogno di andare a bussare a casa alle persone, c’era gente che si vantava di essere amica dei De Stefano». Ma fra questi amici – che già in passato Fiume ha collocato fra le schiere fitte di notabili e professionisti reggini – c’erano soggetti che ai figli di don Paolino erano legati da rapporti che andavano ben oltre la semplice frequentazione e conoscenza. «È sempre `ndrangheta ma è come fossero cosa diversa della `ndrangheta. Le affiliazioni fatte fra le loro amicizie da Carmine e Giuseppe erano a livelli diversi ma erano sempre `ndrangheta. Nessuno era stato battezzato, ma erano persone che si erano mostrate disponibili». Personaggi dal cognome noto che – secondo quanto racconta Fiume – si sono prestati a portare «zainetti» a Milano e riportare giù mitra poi usati per omicidi, come Nino Cama, o figli di professionisti, come il rampollo dell’ex assessore Rechichi, la cui affiliazione era oggetto di discussione a casa De Stefano, o ancora quel Fabio Cutrupi, che – dice Fiume – «era uno che era sempre stato a disposizione, già dai tempi in cui Peppe De Stefano studiava a Roma e lo riteneva una persona sempre a disposizione. Si faceva accompagnare quando aveva bisogno di parlare con qualcuno e doveva farsi vedere in giro. Non era affiliato, ma era come se lo fosse».
Persone insospettabili – come Giovanni Zumbo, come Pino Rechichi che, dice il pentito, lavoravano nell’ombra per i figli di don Paolo come, prima di loro e a più alti livelli, altri avevano fatto per il boss di Archi. E dopo la sua morte, a Reggio e fuori Reggio, continuavano a fare per i figli.
QUEL PATTO CON LA MASSONERIA
«Quando Giuseppe De Stefano uscì dal carcere – racconta Fiume – c’era una persona anziana con un ragazzo, che si avvicinò a De Stefano e disse: “Ora sei uscito tu, adesso dobbiamo fare uscire Carmine”. Quando chiesi chi era Giuseppe mi disse che era uno importante del Tribunale di Reggio». Contatti pesanti, di personaggi chiave a Reggio e non solo, che a detta del pentito garantivano al casato di Archi una sorta di impunità. «Loro a Reggio hanno sempre goduto di una rete di protezione, erano degli intoccabili. Avevano paura solo del procuratore Vigna, perché a loro dire ce l’aveva con i De Stefano per l’omicidio Ferlaino». Rapporti – spiega Fiume – che in passato hanno assunto la forma di veri e propri patti che risalivano «agli anni Settanta, ai tempi dei moti di Reggio. Erano stati stretti con persone di un certo livello che avevano la capacità economica per poter entrare in determinate situazioni e stabilivano che, a patto che non fossero commessi crimini contro le istituzioni, li avrebbero lasciati tranquilli». Ci mette un po’ Fiume a delineare in quale ambiente questi rapporti – che, nonostante affondino le proprie radici nel passato, sembra ancora temere – siano maturati. Patti che – dice il pentito – «sono cambiati dopo l’omicidio del giudice Scopelliti», ma che avrebbero garantito comunque un’ancora di salvezza ai figli di don Paolo. «Sono stati i massoni di Reggio a garantire loro protezione. Persone che erano legate a Paolo De Stefano e dopo la sua morte hanno aiutato i figli». E non si trattava di massoneria regolare, specifica Fiume. A gestire i rapporti fra la famiglia di Archi e la massoneria reggina e no – dice il pentito –
è stato per anni l’avvocato Giorgio De Stefano – «noi lo chiamavamo il consigliori, era lui a gestire certe situazioni. La Loggia del Sacro cuore era guidata da lui e quasi tutti quelli che abitavano nel suo condominio – Rechichi, Raffa, Montesano, Ramirez e tanti altri – c’erano…». Anche Zumbo a detta di Fiume gravitava in questo ambiente. «Non è che uno arriva così a ricoprire certi incarichi, qualcuno ce lo ha messo».
E proprio per questo – forse – Peppe De Stefano, stando a quanto Fiume riferisce, non si sarebbe mai fidato di lui fino in fondo. Troppi i rapporti ambigui con le forze di polizia che lui stesso si vantava di conoscere, troppi i segnali che avesse a che fare con la parte in ombra dello Stato, come quel rapporto di lavoro con Sarra «che per noi era con i Servizi». E a Giuseppe De Stefano i Servizi non piacevano. «Lui stava molto attento in queste situazioni perché aveva sempre sostenuto che anche suo padre aveva avuto a che fare con storie di Servizi. E diceva sempre “questi ci ammazzano e non ci pagano”. Carmine invece no, sembrava più interessato a queste cose». Servizi, massoneria, `ndrangheta: un rosario intrecciato con la storia di casa De Stefano e che ciclicamente riaffiora. Un rosario che ciclicamente condanna la storia di Reggio città.
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