REGGIO CALABRIA Pianti contenuti, bestemmie a mezza voce, rabbia composta: è così che i familiari del reggente di Santa Caterina, Carmelo Murina hanno accolto la condanna a 19 anni – uno in più rispetto alla richiesta avanzata dal pm Giuseppe Lombardo – emessa dal Tribunale collegiale di Reggio Calabria presieduto dal giudice De Pascale. Meglio è andata a Giuseppe Morabito, accusato di aver favorito la latitanza del superboss Giovanni Tegano e per questo condannato a cinque anni e sei mesi di reclusione. Per entrambi, il Tribunale ha accolto la richiesta del pm che in sede di requisitoria aveva sottolineato <
Un verdetto che tuttavia in nulla incrina l’impianto accusatorio dell’intera inchiesta che non si è limitata a ricostruire l’infiltrazione del clan Tegano nei pubblici appalti, ma è servita soprattutto per ricomporre il quadro delle gerarchie criminali a Reggio all’indomani della seconda guerra di `ndrangheta. Un quadro in cui Carmelo Murina, difeso dall’avvocato Antonio Managò e Francesco Calabrese, gioca un ruolo fondamentale. Nonostante lui stesso abbia tentato un’ultima disperata autodifesa in aula, definendosi un perseguitato, condannato “a pagare ogni 4-5 anni la stessa cosa”, il Tribunale ha sposato in pieno la ricostruzione del pm che in lui vede uno dei colonnelli incaricati di gestire i nuovi assetti vigenti in città dopo la pax mafiosa dei primi anni Novanta. Un nuovo ordine in cui alcune famiglie, come i Tegano per conto dei quali Murina è proconsole nello strategico rione di Santa Caterina, non sono parificate o parificabili alle altre, ma sono parte di un direttorio ai cui indirizzi tutti gli altri clan devono sottostare.
Non a caso – ha dimostrato l’inchiesta “Agathos”, tanto nel procedimento che si è svolto con rito ordinario, come in quello con rito abbreviato – i Tegano sono stati in grado di accaparrarsi l’appalto per la pulizia dei treni, intervenendo nella platea di lavaggio di Calamizzi, una zona lontana dal loro tradizionale feudo. Non a caso – è emerso in istruttoria – in presenza dei diretti luogotenenti del clan, i colonnelli come Murina sono obbligati a farsi da parte, come successo per il bar Malavenda sul quale Paolo Schimizzi, personaggio di primo piano del clan Tegano prima che la sua rapidissima ascesa venisse arrestata da una presumibile scomparsa per lupara bianca, ha rivendicato e visto riconosciuto il proprio “diritto di prelazione”. Una vicenda paradigmatica per comprendere che «esiste una `ndrangheta di primo livello e una di secondo livello», che quando la prima si impone è obbligata a farsi da parte. E che spiega l’evoluzione stessa della cosca Franco, la cui esistenza è stata provata dal procedimento Olimpia, ma che nel tempo è stata progressivamente inglobata dai Tegano.
È questa la ricostruzione emersa nel corso del lungo procedimento e che il Tribunale collegiale ha sostanzialmente confermato con la durissima sentenza di condanna a carico di Murina. Un verdetto che non più tardi di questa mattina l’uomo aveva annunciato di attendere con serenità. “Io presidente ho presenziato a tutte le udienze, ho notato quante volte ha preso la penna nelle mani per prendere appunti – ha affermato Murina – mi sento sereno e sono sicuro che qualsiasi giudizio sarà quello corretto”. Chissà se a poche ore di distanza da quelle affermazioni e con una condanna a 19 anni sulle spalle, sarà ancora dello stesso avviso.
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