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LA RELAZIONE DELL`ANTIMAFIA | Ascesa inarrestabile delle cosche

È l`aspetto “glocal” a colpire di più. Il modo in cui la `ndrangheta riesce ad adattarsi perfettamente a tutti i contesti in cui si cala. Sfruttando la più piccola opportunità per captare risorse e…

Pubblicato il: 06/03/2013 – 18:28
LA RELAZIONE DELL`ANTIMAFIA | Ascesa inarrestabile delle cosche

È l`aspetto “glocal” a colpire di più. Il modo in cui la `ndrangheta riesce ad adattarsi perfettamente a tutti i contesti in cui si cala. Sfruttando la più piccola opportunità per captare risorse e appropriarsi di attività “pulite”, fagocitandole e, di fatto, strappandole ai loro proprietari. In questo riesce sempre a tenere una visione ampia. Più di una società finanziaria – che potrebbe accontentarsi di gestire traffici milionari in società offshore. Più di una “semplice” industria. Una holding nel vero senso della parola. La relazione conclusiva della Commissione antimafia è una summa delle operazioni concluse negli ultimi anni sul territorio calabrese. Una radiografia precisa, che descrive lo stato dell`arte dell`offensiva mafiosa. Non ci sono più le pagine “sorprese” per il livello d`infiltrazione raggiunto in tutto il Paese. Quello è un dato quasi scontato. Se è vero che, come afferma uno dei commissari, il parlamentare idv Luigi Li Gotti, anche a Bolzano c`è una traccia della presenza criminale, “grazie” alla presenza delle famiglie Muto, di Cetraro, e Chirillo, di Paterno Calabro. Due clan cosentini da esportazione, come tanti (soprattutto reggini e crotonesi) lo sono stati negli ultimi trent`anni. Quando il Nord sottovalutava (o negava) la minaccia e i boss cominciavano a fare affare reinvestendo enormi capitali. Questi investimenti, adesso, sono all`ordine del giorno. E se ne aggiungono di nuovi. In tutti i settori e con ogni metodo disponibile. Il caso dell`«acquisto», da parte della cosca Bellocco, della catena di call center “Blue Call” è indicativo. «L’operazione – secondo il contenuto della relazione – mette in evidenza quali sono stati i passepartout che hanno consentito» alla cosca «di arrivare a Milano, e più esattamente a Cernusco sul Naviglio, per acquistare il controllo e poi la gestione» della società, che contava all`epoca più di 600 dipendenti. La Blue Call era una società a responsabilità limitata che, inizialmente, aveva due soci: una imprenditrice «che deteneva l’80 per cento delle quote sociali e un socio di minoranza con il 20 per cento». «L’imprenditrice – il racconto è del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino – ha un figlio, il quale era debitore di una grossa somma di denaro nei confronti di un commercialista di origine calabrese, che viveva al Nord. Questo commercialista, a sua volta, era debitore dei Bellocco, ai quali, quindi, si rivolge per esigere il credito insoddisfatto vantato nei confronti del figlio della signora». È a questo punto che il clan vede uno spiraglio per entrare nel business dei call center: «I Bellocco portano a compimento il mandato del commercialista loro debitore ma non esigono da questi la somma di denaro pari al credito vantato eventualmente maggiorata da quanto valesse a compensarli dell’azione di recupero credito posta in essere, ma richiedono al proprietario delle quote di maggioranza della Blue Call una parte in contanti ed altra parte in quote sociali ritrovandosi alla fine a detenere il 40 per cento dell’80 per cento delle quote della madre del debitore che originariamente aveva il debito nei confronti del commercialista calabrese e, quindi, a gestire la maggioranza delle quote sociali». È una scalata mafiosa in piena regola.
Ogni scusa è buona per aumentare il volume di affari. Le cosche reggine lo sanno bene. E in città, contando sull`appoggio di una vasta zona grigia, sono diventate padrone di ogni settore dei servizi. Anche a costo di mettere da parte antiche rivalità macchiate con il sangue. La spartizione delle società partecipate è (anche) il risultato di una conversazione intercettata «tra un soggetto, che è un imprenditore reggino, con uno dei boss storici della ’ndrangheta reggina, Domenico (Micu) Libri, di straordinaria importanza investigativa, nel corso della quale il primo comunica al secondo di essere stato chiamato dall’allora latitante Pasquale Condello (il Supremo), per accordarsi sulla spartizione di quello che è subito percepito quale il più importante affare economico che sta per nascere in città, ossia proprio la costituzione di queste società partecipate con il Comune di Reggio Calabria». Siamo a poca distanza dalla conclusione della seconda guerra di mafia, che aveva visto contrapposti i gruppi riconducibili ai due boss, Libri e Condello. E, dopo la faida, «che si era protratta fino alla fine degli anni Novanta, le famiglie mafiose di Reggio Calabria, di fronte al grande affare, ossia la prospettiva di cinque società partecipate, non conoscono più divisioni ed, anzi, parlano tutte insieme per dividersi le partecipazioni». Pronte a dimenticare qualche centinaio di morti solo per il business. E «la conferma che gli accordi siano stati raggiunti proviene proprio dagli esiti delle ultime inchieste condotte dalla Dda di Reggio Calabria. Indagando sulla cosca Tegano, gli inquirenti giungono ad ottenere la prova della partecipazione della famiglia mafiosa dei Tegano alla Multiservizi, e, nell’ambito di altra indagine riguardante la Leonia, altra società partecipata, evidenziano che quote della stessa sono in mano alla famiglia mafiosa dei Fontana».
È la misura della difficoltà del lavoro investigativo: un accordo stretto nel 2002 tra due boss, ha conseguenza che producono effetti per dieci anni, prima che lo Stato intervenga. Un intervallo temporale amplificato dall`esistenza della cosiddetta zona grigia. Che, a Reggio Calabria, ha «una figura scolastica» in Giovanni Zumbo, il commercialista-spione recentemente condannato a 16 anni e 8 mesi: «Ha uno studio che lo mette in contatto con tutto il mondo dei liberi professionisti, ha rapporti con la magistratura perché fa l’amministratore dei beni sequestrati e confiscati, amministra patrimoni di mafia importantissimi non solo per la rilevanza economica, ma anche dal punto di vista dei nomi degli ’ndranghetisti cui questi patrimoni appartenevano. Ma soprattutto Zumbo è quel soggetto che a marzo 2010 va a casa di Giuseppe Pelle, il figlio di Antonio Pelle Gambazza, e gli rivela tutte le notizie che in quel momento erano segrete e che certamente non circolavano, o non avrebbero dovuto circolare, sull’indagine “Il Crimine”». Zumbo è una cerniera, perché ha contatti con i mafiosi, fa il prestanome per i mafiosi e detiene un patrimonio come quello del 33 per cento del 49 per cento della societa` partecipata di Multiservizi e, dall’altro lato, ha contatti anche con apparati dello Stato. Ma Zumbo è ancora un mistero, almeno in parte: «Nonostante tutti i nostri sforzi investigativi – dice ancora Prestipino – non siamo riusciti a capire, sapere e scoprire chi avesse mandato il signor Zumbo a casa di Pelle a dare quelle notizie e proporre patti scellerati, ma soprattutto chi gliele avesse fornite da offrire».
Sempre sulla zona grigia, il procuratore aggiunto Nicola Gratteri ha portato una tesi fuori dagli schemi, «evidenziando che, a suo parere, determinati comportamenti pur messi in atto dalla borghesia dei professionisti (medici, ingegneri, avvocati, eccetera) e non dalla manovalanza militare della ’ndrangheta, rientrano, a pieno titolo, nella condotta associativa contestata all’articolo 416-bis (l`associazione mafiosa). E di ciò ha dato una spiegazione evidenziando che, fin dagli anni ’70, tutti i figli dei capi mafia sono andati all’Università e si sono laureati ed oggi si trovano nei quadri della Pubblica Amministrazione e nella cosiddetta borghesia».

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