Clan di Condofuri, il pm chiede 54 condanne
REGGIO CALABRIA È una vera e propria pioggia di condanne quella che il pm Antonio De Bernardo ha invocato al termine della sua requisitoria nel procedimento con rito ordinario Konta Korion, scaturito…

REGGIO CALABRIA È una vera e propria pioggia di condanne quella che il pm Antonio De Bernardo ha invocato al termine della sua requisitoria nel procedimento con rito ordinario Konta Korion, scaturito dall’inchiesta che per prima ha svelato l’esistenza di un locale di `ndrangheta a Condofuri. In linea con la sentenza che ha chiuso il primo grado dell’abbreviato, sostanzialmente confermando l’impianto accusatorio che ha inchiodato capi e gregari della cosca Rodà- Casile, il pm ha invocato condanne severe – dai due anni e sei mesi ai diciotto anni di reclusione – per i cinquantaquattro imputati, alla sbarra perché accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione e turbativa d’asta.
Fra di loro c’è anche l’ex assessore ai Lavori pubblici del Comune di Condofuri, sciolto per mafia proprio in seguito all’inchiesta, Filippo Rodà, infermiere di professione e per sua stessa ammissione fulminato sulla via di Damasco della politica attiva «due, tre mesi prima delle elezioni» – ha detto in aula nel corso del dibattimento – ma che alle successive consultazioni risulterà primo fra gli eletti. Un esito fortunato – sostiene la Procura – perché così deciso dal clan che lo ha scelto, al cui volere Rodà – che diventerà assessore ai Lavori pubblici – si sottometterà completamente e per questo da condannare secondo la pubblica accusa a dodici anni di reclusione.
Pene ancor più pesanti sono state invocate per i presunti affiliati a vario titolo al clan, così come a chi ne ha favorito il consolidamento criminale e istituzionale a Condofuri. Il pm de Bernardo ha infatti chiesto 18 anni di reclusione più 3mila euro di multa per Ernesto Pontari, ritenuto uno degli elementi di spicco del clan, mentre quattordici sono stati chiesti per Concetto Manti e dodici per Pietro Miceli. Per la pubblica accusa, sono invece da condannare a nove anni di reclusione Giuseppe Poerio e Antonio Nucera, per il quale è stata chiesta anche una multa di 1800 euro. Otto anni di carcere sono stati invocati per Filippo Altomonte, Giovanni Altomonte, Leone Caridi, Francesco Gurnari, Pasquale Modaffari, Carmelo Modaffari, Giuseppe Nucera, Tommaso Ollio e Claudio Sottile. È di un anno inferiore la condanna chiesta per Domenico Caridi (7 anni e 3000 euro di multa), mentre sei anni più mille euro di multa è la pena invocata per Tommaso Miceli (senior).
Va meglio al suo più giovane omonimo, Tommaso Miceli junior, per il pm da condannare a cinque anni di reclusione insieme a Bruno Bertone e Leonardo Occhibelli, per i quali la pubblica accusa ha chiesto anche che siano condannati a pagare un’ammenda di mille euro. Tre sono i soggetti per i quali il pm ha chiesto una condanna a quattro anni di reclusione – Filippo Guglielmini, Caterina Iriti e Massimo Antonio Nucera- mentre tre anni di reclusione e novecento euro di multa sono stati invocati invece per Pietro D’Aguì, Domenico Stelitano, Leone Violi e Pietro Praticò.
Decisamente più corposo il blocco di condanne invocate per gli imputati oggi a giudizio sul cui capo pende l’accusa di turbativa d’asta, da punire secondo il pm con due anni e sei mesi di reclusione più duemila euro di multa. È questa la pena chiesta da De Bernardo per Gianfranco Aquino, Pietro Bertuca, Roberto Caratozzolo, Francesco Cataldo, Angelo Cosentino, Antonio Grasso, Giovanni Gullì, Giuseppe Gurnari, Rocco Antonio Ieropoli, Pio Ligato, Vincenzo Marra, Francesco Marzano, Daniele Marcello Nucera, Francesco Pangallo, Giuseppe Perrone, Barbara Rinaldo, Giacomo Scattareggia, Giuseppe Scattareggia, Marco Siciliano, Massimo Siciliano, Calogero Terragana, Francesco Timpano, Michele Timpano, Demetrio tripodi, Bruno Zappavigna e Ernesto Zappavigna. Medesima pena detentiva ma ammenda più salata è stata invocata dal pm De Bernardo per Pierino Ferrari, da condannare per la pubblica accusa a due anni e sei mesi di reclusione e tremila euro di multa.
Il procedimento, entrato oggi nella fase della discussione, è scaturito da un’indagine che ha permesso di scoprire che non solo i Rodà – Casile avevano per anni condizionato il Comune di Condofuri, ma anche che avevano tentato il salto di qualità eleggendo un proprio uomo con l’obiettivo dichiarato di farlo arrivare nella stanza dei bottoni. Una strategia mirata a controllare l’assessorato ai Lavori pubblici, divenuto per i clan crocevia di affari e appalti pilotati. Un progetto riuscito, almeno fino all’intervento della magistratura, che dall’incendio di un escavatore di un’impresa di movimento terra, verificatosi nel novembre del 2004, è riuscita prima a dare un nome e un volto al comitato d’affari – espressione diretta della consorteria mafiosa – che gestiva in regime di quasi totale monopolio l’aggiudicazione degli appalti pubblici della zona, quindi a fotografare il clan, in tutte le sue articolazioni. Alla sbarra sono finiti infatti personaggi della “società maggiore” e della “società minore” della locale di Condofuri, rappresentate plasticamente e descritte in dettaglio da centinaia di intercettazioni che hanno dato gambe all’inchiesta. «Siamo in presenza di una locale importante – ha detto nel corso della sua requisitoria il pm De Bernardo, riconosciuta dal Crimine di Polsi e dunque organizzato sulla base di regole condivise. E le regole sono l’essenza stessa della ndrangheta». Regole comuni che hanno trovato conferma in molte inchieste, descritte in dettaglio dalle centina di conversazioni messe agli atti e che hanno consentito di ricostruire anche le alleanze e i rapporti esterni dei principali personaggi della consorteria. Un filone investigativo fortunato e che ancora non sembra essersi esaurito: non più di qualche settimana fa, l’operazione El Dorado ha colpito ulteriormente l’anima della locale di Condofuri, svelando un giro di traffici e riciclaggio che i principali esponenti del clan erano in grazio di gestire tra la Calabria e Viterbo.