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Do ut des, parla Spanò

REGGIO CALABRIA Da Reggio Calabria alla Tunisia, da La Spezia a Vibo, passando per la Libia come per i maggiori porti d’Italia: Antonino Spanò, titolare dell’omonimo cantiere nautico che la Procura r…

Pubblicato il: 18/06/2013 – 18:15
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Do ut des, parla Spanò

REGGIO CALABRIA Da Reggio Calabria alla Tunisia, da La Spezia a Vibo, passando per la Libia come per i maggiori porti d’Italia: Antonino Spanò, titolare dell’omonimo cantiere nautico che la Procura ritiene in realtà di Luciano Lo Giudice e per questo imputato al processo Do ut des, ha un ricordo preciso e netto di ogni imbarcazione su cui ha lavorato. Ricorda modello, motore, misure e caratteristiche con la precisione di un computer. Ed è quasi con rabbia e frustrazione che di fronte al Tribunale snocciola cifre, nomi, circostanze, a testimonianza di una  più che ventennale attività «che era mia e solo mia – rivendica – non a caso per mantenerla ho fatto milioni di debiti». Pendenze che oggi hanno sepolto il cantiere perché «dopo il sequestro i curatori hanno concordato un piano di rientro con la Mercury  (Azienda leader nel settore nautico, ndr) ma dopo aver saldato le prime rate non hanno pagato più e adesso c’è un’istanza di fallimento», dice masticando con amarezza le parole.
Alla radice dei suoi guai, i rapporti con Luciano Lo Giudice, fratello del collaboratore Nino – da più di una settimana sparito senza lasciare traccia – e assiduo frequentatore del cantiere. Su questo e solo su questo si basavano i rapporti che il titolare dell’attività aveva con quello che viene ritenuto la mente imprenditoriale del clan Lo Giudice, per il quale Spanò aveva assemblato «la barca più veloce di tutta l’area dello Stretto». Da lì – dice Spanò – sarebbe nato un rapporto che nel tempo è andato al di là della mera dimensione commerciale o legata alla nautica. «Come tutte le attività stagionali, il cantiere attraversava momenti buoni e meno buoni. Aveva necessità di manutenzione continua, ma non sempre avevo la possibilità economica di farlo anche perché spesso la gente pagava con assegni posdatati. Spesso e volentieri, Luciano mi cambiava questi assegni, non si è mai tirato indietro, anche se mi rimproverava di essere incapace di pretendere i soldi che mi spettavano», spiega Spanò, che davanti al Tribunale ribadisce con forza che «quella disponibilità» non sarebbe stata sinonimo di reale proprietà del cantiere. «È ovvio che proprio per la disponibilità che aveva continuamente nei miei confronti, da Luciano non pretendevo il pagamento del rimessaggio».
Ma dalla stessa barca divenuta fiore all’occhiello del cantiere, partirà anche l’incendio che nel febbraio 2009 – l’ultimo di una lunga serie di attentati – ha provocato quasi un milione di euro di danni in termini barche distrutte o danneggiate, attrezzature devastate e strutture compromesse. Un episodio che ha attirato le attenzioni degli inquirenti – ma non di Luciano, che al di là di una telefonata non si interesserà ulteriormente della sorte della sua super-barca – anche perché da Spanò erano molti gli esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine che avevano imbarcazioni  in rimessaggio. Gli stessi magistrati che Nino Lo Giudice ha messo alla berlina con le sue dichiarazioni – di recente ritrattate – accusandoli di presunti rapporti con il clan, ma che – ha chiarito Spanò – con Luciano avevano semplicemente il rapporto di confidenza che può nascere fra appassionati dalla comune frequentazione del medesimo circolo nautico.
Come Luciano, era lì che tenevano la barca i giudici Alberto Cisterna, Franco Mollace e Franco Neri, sbattuti in prima pagina dopo le accuse di Nino Lo Giudice a carico dell’ex numero due della Dna. Insieme a loro, alla berlina è finito anche il procuratore Carlo Macrì – accusato di possedere un motoscafo  che non ha mai avuto da un maresciallo ascoltato nel corso delle indagini e che lo stesso Nano nel memoriale si è preoccupato di smentire – e che lo stesso Spanò afferma di non avere neanche mai conosciuto.
Ma le presunte affinità dei togati con i Lo Giudice – e soprattutto con Luciano – finiscono alla comune frequentazione della rimessa di Calamizzi. È lì infatti che i giudici avrebbero tenuto le rispettive imbarcazioni, affidate alle mani di Spanò per la manutenzione e l’assistenza in caso di difficoltà – come quando il gommone del dottor Cisterna ha rischiato di finire sotto le onde a causa di una falla – o per i trasferimenti, come nel caso del natante che il titolare del cantiere avrebbe portato al dottor Mollace a Bianco o della barca a vela del giudice Neri, recuperata a Milazzo. Trasferimenti, durante i quali occasionalmente – e all’insaputa dei diretti interessati – Spanò si è fatto accompagnare da Luciano Lo Giudice perché – ammette con un certo imbarazzo – nonostante per lui le barche non abbiano segreti, è sprovvisto di patente nautica.
Parole che non fanno che confermare l’inconsistenza del castello accusatorio a carico dell’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna, mai indagato o imputato nel procedimentoDo ut des – ma solo in un procedimento archiviato su richiesta della stessa Procura che l’aveva istruito senza neanche chiedere il rinvio a giudizio – eppure più volte tirato in ballo dalla pubblica accusa nel corso del dibattimento. Per il pm Ronchi infatti, a sostegno della sua tesi dei cordiali rapporti tra Luciano e Cisterna, ci sarebbe stato anche il viaggio a Milazzo che Spanò e quella che viene considerata la mente imprenditoriale del clan Lo Giudice, avrebbero fatto per recuperare una barca del giudice. Imbarcazione – che sottolinea oggi Spanò in aula, come in precedenza già fatto da Cisterna – l’ex numero due della Dna non ha mai avuto in Sicilia. Del resto, fra i due non ci sarebbe mai stato un rapporto che andasse al di là – dice Spanò – delle «classiche chiacchiere che si scambia la gente che va per mare, dritte, opinioni, insomma chiacchiere da marinai». Solo una volta Luciano – ricorda Spanò- gli avrebbe chiesto di intercedere per lui con Cisterna per «una raccomandazione per ottenere una visita ad una clinica di Pisa per un problema medico del figlio».
Solo in occasione di un incontro a Roma, al termine di un pranzo a Fiumicino con lo stesso Cisterna e quello che mesi dopo scoprirà essere il colonnello Ferlito, Spanò incrocerà Luciano in aeroporto e lo vedrà allontanarsi a parlare con quell’ufficiale che a lui era stato presentato come «l’avvocato di Padova». Lo stesso soggetto con il quale avrà un secondo incontro a Reggio, ma senza saper dire quale dei due sia stato realizzato prima.
Un ricordo quasi fotografico ha invece Spanò dei pochi – ma lascia intendere spiacevoli – incontri con Nino Lo Giudice, che non solo avrebbe tentato di incontrarlo mentre era agli arresti domiciliari –ottenendo in cambio un secco rifiuto – ma sarebbe arrivato a minacciarlo – neanche troppo velatamente – quando Luciano è finito dietro le sbarre. Da lui, il Nano avrebbe preteso – e ottenuto – un’intercessione con l’avvocato Abbate perché assumesse la difesa del fratello, ma i rapporti sarebbero finiti lì. E Spanò – lascia intendere – non ha certo rimpianto l’interruzione di tali contatti. Tutte circostanze su cui è probabile che Luciano avrà qualcosa da dire. Ma per le sue annunciate dichiarazioni spontanee, sarà obbligato ad aspettare la prossima udienza. (0090)

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