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cronaca

Incandidabili perché "causa" dello scioglimento

REGGIO CALABRIA «L’ente comunale è risultato così non solo vulnerabile rispetto al potere delle `ndrine locali, ma di fatto a queste permeabile, generando un pericoloso vulnus nel doveroso rigore gra…

Pubblicato il: 09/08/2013 – 7:59
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Incandidabili perché "causa" dello scioglimento

REGGIO CALABRIA «L’ente comunale è risultato così non solo vulnerabile rispetto al potere delle `ndrine locali, ma di fatto a queste permeabile, generando un pericoloso vulnus nel doveroso rigore granitico della legalità amministrativa». È una clava pesante di 120 pagine la sentenza con cui il Tribunale civile di Reggio Calabria ha decretato l’incandidabilità di Demetrio Arena, W.C., Giuseppe Eraclini, Giuseppe Martorano, Pasquale Morisani, Giuseppe Plutino, Luigi Tuccio e Sebastiano Vecchio «alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento del Comune di Reggio Calabria». Tutti pezzi da novanta del centrodestra reggino, con riverberi non indifferenti sugli equilibri regionali, costretti per legge a saltare un turno perché bollati come coloro che con le loro condotte sono stati «causa efficiente, diretta e/o indiretta, dello scioglimento dell’organo comunale». Un marchio di infamia particolarmente ingombrante per chi come Demi Arena, smesse le vesti di sindaco “sciolto” per contiguità mafiose, ha trovato nuova vita politica in Regione, dove è stato chiamato a ricoprire l’importante incarico di assessore alle Attività produttive.  

LA “CAUSA EFFICIENTE” DEMI ARENA Per legge responsabile dell`amministrazione, rappresentante della funzione politica e amministrativa dell’ente, in qualità di ex sindaco, il neo assessore Demi Arena è identificato come principale responsabile delle condotte che hanno portato allo scioglimento del Comune di Reggio per contiguità mafiose. Un esito inevitabile se è vero che – come è emerso in passato dalla relazione ministeriale e si conferma oggi con questa sentenza – nel corso della sua pur breve gestione, non c’è settore che non sia stato contaminato dagli appetiti dei clan. Ai giudici reggini sono servite sessanta pagine – quasi metà dell’intero provvedimento – per elencare anomalie, omissioni e violazioni che hanno permesso ai clan di mettere radici a Palazzo San Giorgio e di cui Arena è ritenuto responsabile. Un catalogo della vergogna che a partire dal settore lavori pubblici – «ove la compromissione dei principi di buon andamento e correttezza dell‘agere publicus ha riverberato maggiormente i suoi effetti» – svela il vero volto del modello Reggio.

LAVORI PUBBLICI IN MANO ALLA `NDRANGHETA È quasi con sdegno che i giudici sottolineano che «in un territorio così fortemente segnato dalla presenza di organizzazioni criminali, che tendono ad inserirsi nella gestione della res publica al fine di percepire i guadagni a questa collegati, il Comune di Reggio Calabria, solo su impulso della Prefettura, nel 2009 ha aderito alla Suap, ossia alla Stazione unica appaltante provinciale, costituita presso la Provincia unitamente ad altri 86 comuni». Un’adesione che prevede che sia un ente terzo a gestire l’assegnazione di appalti superiori ai 150mila euro, ma che Palazzo San Giorgio – a differenza di altri 75 comuni della provincia che non solo l’hanno rinnovata, ma l’hanno anche estesa agli appalti sotto-soglia e ai procedimenti di acquisizione dei beni e servizi – ha lasciato scadere. E se ciò non bastasse, a partire dal 2010 il Comune di Reggio Calabria non ha attivato alcuna forma di controllo e prevenzione contro l’infiltrazione mafiosa nel settore dei Lavori pubblici, non avendo nemmeno sottoscritto “Accordi di legalità” che estendono le informazioni antimafia a fornitori ed esecutori dei lavori appaltati.
«La conseguenza di tali scelte amministrative è stata – si legge nel provvedimento – il mancato controllo su tutti gli appalti sia sopra che sotto-soglia, oltre al mancato invio delle richieste di informazioni alla prefettura in ordine agli eventuali tentativi registrati di infiltrazione mafiosa; l’omesso controllo sui subappalti, nonché sulle lavorazioni ad importo frazionato». E sono le fredde cifre a dare il metro delle conseguenze di tale “disattenzione istituzionale” in uno dei territori italiani a più alta densità mafiosa: «Quasi il 52% delle procedure di affidamento (132 su 254 procedure di affidamento) sono state effettuate dai due Settori attraverso forme negoziate (cioè trattativa privata e/o cottimo fiduciario). A loro volta, la maggior parte di tali procedure negoziate (70 su 132 affidamenti, pari al 53%) si è conclusa con l`aggiudicazione ad imprese locali, aventi controindicazioni di tipo mafioso». La traduzione in cifre – calcolano i giudici – è sconfortante: attraverso procedure negoziate svolte dal 1 gennaio 2010 al 31 marzo 2012, risultano assegnati ben 6.927.923,00 euro su un totale di 12.988.629,00. Ma non è finita. Negli anni della giunta Arena non sono mancati gli affidamenti diretti – 76 su 254, dicono i tecnici – almeno 30 dei quali sono stati assegnati a ditte con controindicazioni di tipo mafioso, per un totale di oltre novecentomila euro fluiti dalle casse di Palazzo San Giorgio a quelle dei clan.
Sono queste le scelte – scrivono i giudici – che hanno aperto la strada a una «fattiva e pervasiva infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto degli appalti e dei contratti con la pubblica amministrazione. La scelta di procedere ad affidamenti a trattativa privata, cottimo fiduciario ed affidamento diretto, ossia a forme di individuazione del contraente privato residuali rispetto al sistema dell’evidenza pubblica, ha quindi prodotto l’affidamento di lavori a poche ditte, in cui oltre la metà degli affidamenti gestiti dal Comune di Reggio Calabria sono risultati aggiudicati ad imprese con controindicazioni mafiose».
Una situazione resa ancor più drammatica dalla decisione dell’amministrazione di non usufruire delle cosiddette informative atipiche per i contratti sotto-soglia, che avrebbero permesso all’ente di acquisire informazioni vincolanti sulle imprese cui affidare i lavori, senza contare le pesanti parentele con soggetti ritenuti affiliati alla cosca Alvaro dell’istruttore direttivo amministrativo, l’avvocato Saverina D’Elia. Tutti elementi che hanno portato i giudici a una conclusione lapidaria: «Le scelte politico-amministrative dell`Arena hanno quindi reso fortemente permeabile un settore nevralgico come quello dei Lavori pubblici agli interessi della criminalità organizzata, dando luogo ad una concreta deviazione della gestione della cosa pubblica, e delle finanze a questo riferite, dai binari della legalità e correttezza», rinvenendo «forme di condizionamento tali da determinare un‘alterazione del procedimento di volontà dell‘ente» e dando luogo, pertanto, a «un sistema di affidamenti pubblici nel quale l`esercizio dell`azione pubblica posta in essere dall`amministrazione comunale di Reggio Calabria appare inadeguato ad evitare l`arricchimento dei clan criminali nonché ad indirizzarsi esclusivamente verso il soddisfacimento degli interessi generali riconosciuti dall`ordinamento».

LE “DISTRAZIONI” DELLA GIUNTA ARENA Ma in quegli anni, il Comune – scrivono i giudici – non solo non è stato in grado di preservare gli appalti pubblici dagli appetiti dei clan, ma anche quando la magistratura è riuscita a sottrarre agli uomini delle `ndrine i beni illecitamente acquisiti, è stata quanto meno poco puntuale nel rivendicarli. Un’inefficienza già segnalata dall’allora sindaco pro-tempore – oggi presidente della Provincia – Giuseppe Raffa e che – si legge nelle carte – «si è protratta anche sotto la “gestione Arena” ed ha generato una intollerabile, imbarazzante ed evidente illegalità, che la stessa Commissione qualifica “inspiegabile” in ragione della piena conoscenza che della stessa aveva in atti l’amministrazione in carica». Una situazione dalle conseguenze concrete per la città come per le casse dell’ente che vanno «dall’effettiva persistenza, al maggio 2012, di beni confiscati nella disponibilità di diretti parenti di boss a discapito dell’avvenuta confisca e consegna al Comune di detti beni già ne
l 2007», all’omesso «controllo in ordine a soggetti occupanti gli alloggi popolari, un considerevole numero dei quali sono risultati gravati da precedenti per associazione mafiosa», fino alla mancata «regolarizzazione catastale dei beni destinati alla dismissione, al fine di ripianare un rilevantissimo disavanzo di bilancio del Comune».
Tutte circostanze sintomatiche dello sviamento dell’azione pubblica rispetto ai parametri di legge per i giudici, che per arrivare a tale determinazione non hanno dimenticato di valutare anche il dilagante abusivismo permesso nelle aree mercatali – «una situazione certamente inquietante e un concreto pericolo per la pubblica sicurezza ove si consideri che, nell`ambito del territorio reggino, alcuni operatori commerciali del mercato risultano legati agli interessi delle cosche criminali» – come la consistente presenza di uomini delle `ndrine nascosti nella compagine delle associazioni che – a vario titolo – sono state destinatarie di affidamenti da parte del Comune. Stando alle indagini – sottolinea il Tribunale nel provvedimento che bolla come incandidabili Arena e altri sei pezzi da novanta del centrodestra reggino – i clan hanno «usato la veste della associazioni senza scopo di lucro, intestandole a prestanomi, per introitare i finanziamenti da parte del Comune; particolare gravità, che la Commissione non esita a definire «circostanza inquietante» riveste il fatto che le dette associazioni erano volte alla cura e all’assistenza a beneficio dei minori. Circostanze di cui l’amministrazione e il sindaco Arena che la rappresentava, per i giudici sono responsabili perché «l’omesso controllo del settore in esame, sub specie di richiesta di informazioni in ordine alla composizione delle associazioni no-profit, ha di fatto creato le basi e comunque dato linfa all’infiltrazione mafiosa».
Allo stesso modo, sotto l’occhio attento del Tribunale reggino non potevano non finire le  “patologie” che hanno afflitto il dipartimento Urbanistica, finito al centro di un procedimento che ha visto – anche in appello – dirigenti e tecnici comunali condannati a pene pesanti perché ritenuti responsabili di aver trasformato l`attività di gestione degli uffici tecnici del Comune di Reggio Calabria in «una famelica opportunità di guadagno» per un ristretto gruppo di potere. Ma sotto al vaglio dei giudici non poteva non finire quella short list di avvocati – per anni fiore all’occhiello e vanto dell’amministrazione Scopelliti prima e della giunta Arena poi – che ha permesso all’allora neoabilitata compagna dell’assessore Tuccio – costretto alle dimissioni proprio per le polemiche scatenate dalle dirette parentele della donna con uomini di rango della cosca Imerti-Condello, saltate fuori dopo l’arresto della madre di lei – di curare cause milionarie nell’interesse del Comune. Un’anomalia nell’anomalia, tanto per i commissari come per i giudici che oggi su quelle carte hanno lavorato per stabilire l’incandidabilità o meno dei soggetti indicati dal Viminale. Palazzo San Giorgio infatti non solo non ha costituito l’Avvocatura civica prevista dalla legge, ma ha anche sperperato «le finanze, già assolutamente provate, del Comune» riconoscendo – e saldando – i legali della short list come «avvocati esterni all’ente».

LE CASSE VUOTE DI PALAZZO SAN GIORGIO Sono e saranno in futuro altri magistrati a individuare e giudicare i responsabili delle «criticità e irregolarità contabili, sintomatiche di una situazione di squilibrio strutturale del Comune» che hanno trascinato Palazzo San Giorgio sull’orlo di un dissesto non ancora dichiarato, ma che la città sta già pagando. Tuttavia il Tribunale presieduto da Rodolfo Palermo, non ha potuto non rilevare che «l’esecrabile gestione finanziaria» dell`ente, più volte censurata dalla Corte dei conti, l’elusione del Patto di stabilità, unitamente al disordine nella presentazione delle dichiarazioni fiscali, hanno quindi portato ad un accertato disavanzo di amministrazione prossimo ai 170 milioni di euro, un nutrito numero dei quali è risultato inglobato dalle associazioni mafiose, che hanno intrattenuto rapporti direttamente e indirettamente nell’ambito dei singoli settori del Comune, così come appena accertato». Traduzione, la voragine debitoria che oggi i reggini sono costretti a pagare si è dispersa in mille rivoli che spesso sono andati ad ingrassare le casse dei clan che schiacciano la città. Una situazione paradossale, che ha una rappresentazione plastica nell’altrettanto esecrabile gestione delle società partecipate, di fondamentale rilevanza – si legge nelle carte – tanto sul piano economico, «come devoluzione di ingente parte delle risorse pubbliche del Comune», come sul piano funzionale, «essendo le società volte al perseguimento di interessi pubblici basilari per il benessere della cittadinanza».

LO STRABISMO SULLE SOCIETA` MISTE  E sono soprattutto la Multiservizi – di cui Arena è stato anche per lungo tempo anche il commercialista – e la Leonia a complicare la situazione dell’ex sindaco, oggi assessore regionale. Entrambe colonizzate dai clan, entrambe finite al centro di indagini e procedimenti, sono state oggetto di pervicace disattenzione da parte del Comune. Uno strabismo che – nonostante precise norme ne dettassero lo scioglimento – ha permesso per anni alla Multiservizi di sopravvivere. Se già nel 2008, il direttore operativo della società mista, Pino Rechichi, verrà individuato come uomo dei Tegano, da questi demandato al ruolo di socio occulto nella compagine sociale della più grande municipalizzata della città con «il compito di svolgere attività di supporto alle azioni criminali della cosca, forte del ruolo acquisito durante la cosiddetta guerra di mafia», solo nell’aprile 2011 – si ricorda nel provvedimento – sarà convocata un’assemblea societaria per discutere sulle iniziative da intraprendere al riguardo. Una riunione conclusasi con un nulla di fatto, se è vero che solo un mese dopo l’operazione “Astrea” che smaschererà la presenza degli uomini dei Tegano all’interno di Multiservizi e disporrà il sequestro delle loro quote, il capo di gabinetto del Comune darà incarico al suo dirigente «di acquisire le relative informazioni riferite a tutte le società miste comunali». Una risposta che la Prefettura non tarderà a dare: nel giugno 2012, la Gst – socio privato della partecipata – sarà colpita da interdittiva antimafia. E – si legge nella sentenza emessa dal Tribunale civile di Reggio Calabria – «solo a seguito dell`informativa interdittiva, la giunta comunale nella seduta del 3 luglio scorso ha deliberato lo scioglimento di diritto della società mista ai sensi dell`articolo 3 dell`atto costitutivo e, pertanto, dopo dopo più di un anno dalla riconosciuta necessità di adottare le opportune iniziative su vicenda Giuseppe Rechichi». Un’inerzia quanto meno sospetta per il Tribunale, che non può fare a meno di sottolineare come la medesima miopia abbia caratterizzato la vicenda di Leonia, l’altra grande municipalizzata della città, sciolta perché ritenuta in mano al clan Fontana. Il Comune non solo non si sarebbe accorto né della rilevante presenza di aziende riconducibili ai clan fra i fornitori, né della curiosa concentrazione di soggetti con precedenti penali tra i lavoratori, tanto meno della disfunzione nei servizi, ma soprattutto, quando l’originario socio privato – la Calabria Agenda Ambientale – veniva colpito da un’interdittiva antimafia emessa dalla Procura di Caserta, «in violazione delle norme sull`evidenza pubblica, anziché procedere nelle forme pubblicistiche di acquisizione di un nuovo partner sociale, le quote della Calabria Agenda Ambientale venivano meramente cedute alla Società Ecotherm spa».

MESSAGGI NELLA BOTTIGLIA PER SCOPELLITI? È questo il quadro – a dir poco sconfortante – che emerge dalla sentenza che ha bollato come incandidabile l’ex sindaco, oggi assessore alle Attività produttive Demetrio
Arena. In qualità di primo cittadino è stato infatti ritenuto responsabile di ogni atto che la sua amministrazione abbia – o meglio – non abbia fatto nel corso del suo breve mandato. E forse non solo. Scelto come delfino e traghettatore del modello Reggio, Arena sembra ereditare soprattutto gli oneri di quell’amministrazione Scopelliti di cui è considerato il continuatore. «Dall’analisi delle risultanze in atti, della relazione del ministero dell’Interno e della relazione della commissione d’accesso al Comune di Reggio Calabria – si legge nella sentenza – emerge innanzitutto come la “gestione Arena” dell’amministrazione comunale abbia seguito sostanzialmente la gestione del precedente sindaco della città calabra». E a dimostrare che «la compagine amministrativa, eletta all`esito delle consultazioni del maggio 2011, si sia posta su di una linea di continuità rispetto all`amministrazione che ha precedentemente governato la città», c’è – dicono i giudici – una prova concreta. Durante la “gestione Scopelliti”, la diretta nomina politica dei dirigenti – duramente censurata dal ministero dell’Interno – aveva infatti evidenziato «l`interferenza del vertice politico sulle attività ricadenti nelle competenze della dirigenza amministrativa». Situazione che la giunta Arena – solo sette mesi dopo l’insediamento – ha apparentemente sanato, «in realtà perpetrando la violazione di legge, di principi costituzionali e prescrizioni del ministero dell’Interno inserendo un anomalo parere obbligatorio dell’organo politico nelle attribuzioni delle responsabilità di uffici e servizi».
Apparentemente, si tratta solo di una questione di secondo piano nel quadro devastante che emerge dai procedimenti che hanno interessato il Comune, ma che – si legge nella sentenza – «acquista una luce particolare sol che si consideri che il parere stabilito dalla giunta Arena doveva esser richiesto obbligatoriamente al sindaco e all’assessore con delega all’organizzazione e alle risorse umane e che, in quest`ultimo settore, sono risultati assunti 40 dipendenti con precedenti penali per reati associativi di `ndrangheta e 5 aventi rapporti di frequentazione e/o parentela con elementi della criminalità organizzata». L’ennesima pennellata nel quadro a tinte fosche del modello Reggio.

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