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DO UT DES | Cisterna: con Lo Giudice incontro rituale

È da magistrato a magistrato che il procuratore capo Federico Cafiero de Raho inizia il controesame dell’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna nel processo “Do ut des”. E l’incipit è una question…

Pubblicato il: 08/10/2013 – 13:02
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DO UT DES | Cisterna: con Lo Giudice incontro rituale

È da magistrato a magistrato che il procuratore capo Federico Cafiero de Raho inizia il controesame dell’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna nel processo “Do ut des”. E l’incipit è una questione tecnica – ma non solo – sulle prassi all’epoca vigenti in Dna. «Sulla questione dei colloqui investigativi a soggetti non detenuti, sono stati mossi rilievi importanti da parte di molte Procure siciliane. All’epoca, nel 2004, io mi attenevo strettamente alla norma, quindi facevo questo tipo di colloqui solo con detenuti. Io in dieci anni di attività credo di aver fatto attività solo con detenuti. La prassi attuale è diversa e colloqui sono stati dilatati anche a soggetti non detenuti o non indagati. Questa prassi non codificata di fare colloqui con soggetti liberi, ha aperto la strada a una serie di contestazioni». Una questione tecnica, che prepara la strada alla vera questione che Cafiero de Raho vuole porre, quella dei rapporti di Cisterna con Luciano Lo Giudice, fratello di Nino “il Nano”. «Quando ho avuto quel contatto con Lo Giudice, ne parlai rapidamente con il procuratore Vigna, tant’è che chiesi che venisse escusso al Csm, ma la mia istanza fu rifiutata. Io mi incontrai con Luciano perché dovevo presentargli il colonnello Ferlito».
Quindi Cafiero de Raho rivolge – quasi incalzandolo – una domanda ad Alberto Cisterna: «Lei ritiene che un magistrato si possa incontrare con un soggetto di `ndrangheta?». Una domanda a cui – da tempo – Cisterna attende di rispondere: «Io mi sono incontrato con Luciano Lo giudice solo per presentarlo al colonnello Ferlito. Lì Luciano Lo Giudice venne solo per la presentazione. Se io fossi rimasto inerte, oggi avrei risposto di aver ignorato le informazioni necessarie per catturare un latitante», dice quasi d’un fiato Alberto Cisterna. «Procuratore – dice l’ex numero due della Dna, rivolgendosi direttamente a Cafiero de Raho – che un ragazzo di bassa cultura e di estrazione familiare che è quella che è si sia convinto di qualcosa, non dipende da me. Non c’è alcuna prova o indizio che sia provata quella che è una sua convinzione, ovvero di stare nelle istituzioni. Se dovessimo mettere in fila le persone che sono state chiamate in correità nelle conversazioni, faremmo un elenco telefonico. Se lui ha messo a rischio la sua vita e la sua identità è stata bruciata mettendo a rischio la sua vita, dunque lui ha iniziato a pensare di essere parte delle istituzioni è una sua convinzione. Qui se dovessimo discutere che un cognome basta per un’accusa di associazione mafiosa, faremmo di questa provincia un ghetto. Io avevo un dato: questo era un soggetto incensurato, che ha continuato a preoccuparsi del fratello collaboratore di giustizia. Questo è incompatibile con qualsiasi concezione criminologica e sociologica della `ndrangheta».
Parole pesantissime che sembrano rompere l’iniziale diffidenza con cui il procuratore capo della Dda di Reggio si rivolge a Cisterna. E l’ex numero due della Dna non esita ad utilizzare anche un passo di un libro del prefetto Mori per spiegare in quale contesto sia maturata l’offerta di collaborazione manifestata da Luciano Lo Giudice. Quello di un rapporto sempre più stretto fra la Dna e i Servizi, che hanno partecipato in prima persona a diverse  operazioni anche della Dda di Reggio. «C’è una delega del procuratore nazionale che dispone che i sostituti si occupino del coordinamento dell’attività dei latitanti. In un libro del prefetto Mori, si dà conto dell’attività che l’ufficio incontrovertibilmente svolgeva. Io su Luciano Lo Giudice ho pensato: “Che vantaggio avrebbe a venire da me un millantatore?”. Ho fatto un discorso a mio avviso di assoluta ragionevolezza, pensando: “Chi verrebbe da un sostituto della Dna a dare informazioni che mettono a rischio la sua vita?”. Nel vedere le relazioni del Sismi io mi sono tranquillizzato, perché ho capito l’assoluta ritualità di quell’incontro. Non ho visto, né sono riuscito a vedere dopo, anomalie in questo percorso. Si sono scritte 470 pagine di decreto di archiviazione, che mi è stato negato di vedere. Ho presentato contro quell’archiviazione un ricorso in Cassazione e sono pronto ad andare anche alla Corte di giustizia europea. Questo credo dimostri o la mia assoluta estraneità o un pizzico di follia».
L’ex numero due della Dna risponde alle domande dell’accusa, ripercorrendo passo passo in quali occasioni sia inciampato nei Lo Giudice nel corso della sua attività come inquirente. «Sui Lo Giudice, ho dato impulso alla squadra mobile di approfondire in occasione di un danneggiamento ad una gelateria in via Marina. I Lo Giudice, gli altri, sono stati da me attenzionati, quando mi sono occupato dell’omicidio dei carabinieri, che ho curato come gip e come pm. Lì c’è un Pietro Lo Giudice, che ad esempio non ha nulla a che fare con loro. Quindi sì, ho trattato i Lo Giudice, ma non conosco a menadito lo stato di famiglia». Anche perché, ha più volte spiegato Cisterna nel corso della sua audizione, all’epoca i Lo Giudice non erano più considerati una famiglia di `ndrangheta. In precedenza, aveva sottolineato il magistrato, lui stesso aveva arrestato Nino Lo Giudice nel corso dell’operazione Olimpia ma senza poter coinvolgere nessuno dei familiari per i medesimi profili.
Le ultime domande il procuratore capo De Raho le riserva a quell’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip di Roma ed eseguita nei confronti del pentito Antonio Di Dieco il 31 luglio 2013, ma che conquista risalto prima sui giornali nazionali, quindi su quelli locali solo verso la fine di settembre proprio quando è in via di definizione il procedimento che vede Alberto Cisterna imputato per calunnia nei confronti dell’ex dirigente di una sezione della Mobile reggina, Luigi Silipo. Un procedimento istruito dalla stessa Procura, che dopo aver archiviato l’esposto presentato dal magistrato contro Silipo, accusato di aver dolosamente alterato un’informativa, pur riconoscendo in quell’atto una serie di anomalie derubricate al rango di «errori materiali e privi di dolo» decide di procedere contro l’ex numero due della Dna. Un processo in seguito conclusosi con un’assoluzione rotonda per il magistrato, ma che a ridosso della pubblicazione dell’ordinanza del gip di Roma, Cinzia Parasporo, vive i suoi momenti più delicati. Proprio alla vigilia della requisitoria del pubblico ministero Centini, su alcuni organi d`informazione appaiono diverse “puntate” dell`atto di una quarantina di pagine con cui il gip Cinzia Parasporo, arrivata da qualche anno a Roma dopo lunghi anni a Palermo, ordina l’arresto del collaboratore Di Dieco e rifiuta quello del suo avvocato Maria Claudia Conidi, accusati a vario titolo di aver calunniato il pentito Nino Lo Giudice e di aver convinto o tentato di convincere altri collaboratori – Luigi Rizza e Massimo Napoletano – a farlo. Stando alle risultanze dell’indagine, sviluppata dalla squadra mobile di Roma, quindi trasmessa a un pm di Perugia in seguito all’astensione dell’attuale procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, la Conidi avrebbe indotto Di Dieco a rendere dichiarazioni non vere per calunniare Nino Lo Giudice. Manovra simile a quella che l’avvocatessa, in collaborazione con Di Dieco, avrebbe tentato con altri due pentiti, Massimo Napoletano e Luigi Rizza, le cui dichiarazioni – fino a qualche tempo fa – costituivano l’unico riscontro esterno a quanto dichiarato – e in seguito smentito – da Nino Lo Giudice, detto il Nano. «Non ho mai trattato personalmente Antonio Di Dieco», risponde alle domande del procuratore , l’ex numero due della Dna Alberto Cisterna. «Il 27 maggio l’avvocatessa Conidi si presenta in Dna e chiede di me. La incontro alla presenza del collega Pennisi, che aveva trattato alcuni dei collaboratori che lei seguiva. Ho formalizzato la discussione e avvertito il procuratore. Il 31 maggio scrivo al procuratore nazionale, rammentandogli di averlo già avvertito per telefono, del colloquio con l’avvocato Conidi. Lei verrà più volte in Dna, ma io la dirotterò sul procuratore. Molto tempo dopo, nel novembre 2012, la Conidi mi scrive, informandomi di aver assunto la difesa di Napolitano Massimo, che mi ha detto di averle inviato una missiva, cui non ha mai risposto. Io ricordo di aver chiamato immediatamente l’avvocatessa Maffei – l’avvocato che difende i più grandi collaboratori di giustizia italiani – cui ho chiesto notizie circa la serietà di Massimo Napolitano. Nel frattempo, ho dato il mio numero di telefono alla Conidi, che si è offerta di lasciare la lettera in un albergo vicino casa mia a Roma. Consigliato dai miei avvocati, ho trasmesso la lettera a Perugia. Avevo già diverse prove della mia innocenza, che erano state sottratte al dibattimento. Di Dieco non mi ha mai mandato una missiva o almeno io non l’ho mai ricevuta. Il suo memoriale mi è arrivato grazie a un giornalista che me lo ha mandato per mail». Un argomento, quello relativo all’ordinanza di custodia cautelare del gip Parasporo che ad Alberto Cisterna serve per approfondire il capitolo dei suoi tormentati rapporti con alcuni organi di stampa, su cui più volte sono filtrati atti riservati prima ancora che a lui fossero comunicati. «Il 13 maggio del 2011 viene pubblicato sul Quotidiano della Calabria il memoriale di Nino Lo Giudice che mi accusa di corruzione. Il giornalista scrive che è stato spedito al Tdl di Catanzaro il 28 aprile.
Per una congiuntura astrale quello stesso giorno, la Procura di Reggio va a interrogare Nino Lo Giudice che consegna ai magistrati il memoriale. Tre giorni dopo, il memoriale viene pubblicato, ma non è quello spedito il 28 aprile, ma quello consegnato ai pubblici ministeri il 10 maggio. Qualcuno l’ha consegnato ai giornalisti dicendo però che l’aveva preso a Catanzaro».
Quindi è il pm Beatrice Ronchi a rivolgere le domande all’ex numero due della Dna. Si rivolge a Cisterna partendo da quell’incontro a Fiumicino con Luciano Lo Giudice e il colonnello Ferlito. «L’incontro – spiega per l’ennesima volta Cisterna – è avvenuto nel parcheggio aeroportuale. Spanò doveva essere il tramite, ma non lo è stato perché era troppo preoccupato. A quel pranzo, c’eravamo io, Spanò e Ferlito. Non sapevo da dove venisse Luciano”. Allo stesso modo, con tutta la calma possibile, Cisterna chiarisce la dinamica del doppio incontro di Roma. «Io e Ferlito avevamo un rapporto di amicizia. Io avevo un appuntamento con il colonnello Ferlito a piazza Euclide, quando Lo Giudice mi ha chiamato e gli ho detto che ero diretto a piazza Euclide. Per me Luciano Lo Giudice era assolutamente nulla, era una persona che aveva collaborato con lo Stato». Ed è preciso Alberto Cisterna quando ripercorre l’unica altra occasione in cui Luciano gli ha fornito informazioni: «Quando c’è stato un brutto attentato alla Questura di Reggio Calabria, io sono passato dal bar di Luciano Lo Giudice e gli ho chiesto cosa fosse successo. Lui scrisse dei nomi su un foglietto che ho immediatamente consegnato al colonnello Coppolino del comando di Reggio Calabria. Il 18 maggio scrivo al procuratore della Dna di questo biglietto. Il colonnello Coppolino mi ha detto che ha negato di averlo ricevuto perché il suo comandante gli aveva detto che nel caso non avesse avuto il foglietto sarebbe stato meglio negare perché avrebbe passato guai». La Ronchi torna a chiedere a Cisterna perché Lo Giudice abbia tentato di rivolgersi a lui dopo l’arresto ritenendosi in credito con lo Stato. «Dottoressa Ronchi, l’occasione buona sarebbe stata il 17 giugno del 2009, se non ci fosse stata la fuga di notizie. Immagino che Lo Giudice si sentisse parte delle istituzioni, io non lo ritenevo nulla. Perché lui si ritenesse tale non lo so». Ma c’è di più. Perché Cisterna dopo anni può finalmente fornire una chiave di lettura a quelle richieste. Una chiave che Lo Giudice aveva fornito «in una lettera che io consegno al procuratore capo Pignatone». Si tratta di una lettera che Luciano fa pervenire a Cisterna durante la sua detenzione. «Lo Giudice in quella lettera si lamentava delle giuste pressioni subite dalla squadra mobile per la cattura di Pasquale Condello. La notizia della sua disponibilità era trapelata oltre il perimetro del colonnello Ferlito. Lui si riteneva vittima di una persecuzione e di pressioni indebite da parte delle istituzioni, a causa della sua collaborazione con il Sismi. All’epoca io non avevo idea dello sviluppo delle investigazioni. Non sapevo se all’epoca Lo Giudice si relazionasse con altre forze di polizia».
Ma la Ronchi insiste sui contatti fra il magistrato e Luciano. Ed è un quasi spazientito Cisterna, che sbotta: «Al di là di quanto già spiegato, non ho mai avuto alcun contatto con Luciano Lo giudice. Nei tabulati ritrovo solo una telefonata, in risposta a una sua chiamata. Non ho mai chiamato Lo Giudice con altre utenze. Il 28 maggio, il giorno del funerale di mio suocero, lui ha chiamato il mio autista probabilmente perché voleva sapere quando e dove era il funerale. I contatti sull’utenza del mio autista, probabilmente si spiegano perché voleva sapere se fossi a Reggio o no, ma testimoniano anche il mio progressivo allontanamento dal soggetto». E lo stesso – dice Cisterna – vale per i suoi familiari. «Io ho incontrato la moglie di Luciano Lo Giudice appena detenuto, come atto di umanità, e non me ne pento. Lo rifarei. Come lo fanno tutti i colleghi che hanno a cuore questo lavoro. Perché una moglie può essere anche portatrice di verità, valutazioni o impressioni. Ho incontrato Florinda Giordano pochi minuti di fronte alla facoltà di Giurisprudenza, mosso da una serie di considerazioni: Luciano Lo Giudice era fratello di un detenuto che aveva collaborato per la cattura di un grande boss e volevo sapere se ci fossero fatti specifici per cui la moglie era preoccupata». È questa l’ultima domanda che la Ronchi rivolge a Cisterna, che però – prima di lasciare il banco dei testimoni – al Tribinale fa una richiesta. «Di fronte alle circostanze ricostruite nel decreto di archiviazione, mi trovo in difficoltà perché non sono mai stato ascoltato al riguardo. Io vedo che sui giornali per ore sono rivolte domande ai testimoni su di me, ma senza che potessi difendermi. Io mi rendo disponibile per qualunque valutazione, approfondimento o chiarimento su quello che dovesse emergere, per questo chiedo al Tribunale di chiamarmi come testimone qualora fosse necessario o possibile».

L`INIZIO DELLA DEPOSIZIONE: «IO, LO GIUDICE E I SERVIZI»
Entra con le spalle dritte e guardando negli occhi il pm Ronchi, l’ex numero due della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna. Dall’86 in magistratura, prima a Palmi, quindi a Reggio come gip e sostituto procuratore, un trampolino per la Dna.
«Ho conosciuto Luciano Lo Giudice come persona che era occasionalmente al rimessaggio barche di Spanò, dove avevo un piccolo gommone. Mi era stato indicato credo come il nipote del signor Spanò. Dopo ho avuto l’informazione dal collega che coordinava le indagini sulla cattura di Pasquale Condello e ho girato l’informazione al colonnello Ferlito del Sismi. Nell’anno 2004, Mollace mi ha detto che quel Lo Giudice che io avevo conosciuto al cantiere forse poteva avere qualche informazione su Condello, che non voleva assolutamente dare agli investigatori di Reggio perché non ne aveva alcuna fiducia. Non potevo occuparmene io perché c’erano una serie di ostacoli: i colloqui investigativi non avevano valore probatorio e i sostituti potevano fare colloqui solo con i detenuti. Nello stesso periodo ho incontrato nei corridoi della Dna il colonnello Michele Ferlito, insieme a quello che ho scoperto essere Marco Mancini. E` stato un incontro casuale. Quell’anno 2004 è particolare per la Dna perché c’erano dei rapporti particolari con i Servizi. Dopo gli attentati a Madrid, la Dna rivendica un ruolo di coordinamento delle indagini antiterrorismo, anche in linea con il percorso del procuratore Vigna. Questa ambizione era stata sempre ostacolata dal Dipartimento di pubblica sicurezza che attraverso la Digos e l’Ucigos rivendicava l’esclusiva delle indagini.
In quel periodo, il Sismi ha sviluppato un’attività intensa in materia di criminalità organizzata. Quel 5 giugno del 2004 viene eseguita a Reggio l’operazione Bumma, in cui i Servizi hanno lavorato gomito a gomito con la Dda. Si fa trapelare la notizia che l’operazione fosse mirata a intercettare dell’esplosivo destinato al terrorismo internazionale. Secondo episodio, ritrovamento dell’esplosivo nel Palazzo comunale di Reggio Calabria. Anche quell’episodio ha visto gli uomini di Mancini: erano schierati in Procura e hanno lavorato gomito a gomito con la Dna. Terzo episodio, l’attività posta in essere per pervenire alla consegna di Bernardo Provenzano. Il 17 giugno, giorno del mio inetrrogatorio, sovrapposi questo ricordo a quello per la ricerca di Peppe Morabito.
In questo quadro, Luciano Lo Giudice era il classico granello di senape, un elemento marginale. Quest’attività è continuata fino all’arrivo del procuratore Grasso che fece l’ultimo colloquio con l’informatore presuntamente mandato da Provenzano. Questa era l’attività ed era un’attività importante. In questo quadro è stata raccolta la disponibilità di Lo Giudice. Io avevo chiesto che sul punto venisse sentito dal Csm il procuratore Vigna, ma non è stato mai ascoltato. Anche il consigliere Macrì ha manoscritto delle dichiarazioni in tal senso, ma anche lui non è stato ascoltato.
L’incontro tra me, Ferlito, Lo Giudice e Spanò avvenne nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino. Io pensavo che la questione si sarebbe potuta risolvere tra di loro, senza coinvolgermi, ma c’erano difficoltà estreme. Quindi venne organizzato un secondo incontro al rimessaggio di Spanò, il 5 settembre del 2004. È una data plausibile perché è esattamente il giorno prima del ritrovamento dell’esposivo in Comune. Questo rinvenimento venne anticipato di parecchi giorni dal pm al procuratore Vigna, che convocò il consigliere Macrì e me. Nella data che il collega ha indicato al procuratore Vigna, l’esplosivo venne effettivamente ritrovato. Io non ho memoria di questo eventuale secondo incontro fra Ferlito e Lo Giudice, potrebbe esserci stato ma non in mia presenza. Io avevo fatto un riscontro sul certificato penale e risultava incensurato. Io non avevo un metro di valutazione se non la segnalazione del collega. Non c’è cattura di latitanti che non venga da informazioni. Se non in pochissimi casi che potrei indicare sulle dita di una mano, non c’è cattura di latitanti che sia dovuta solo ad attività tecnica.
C’è un dato evidente che è rappresentato dalla dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice, che ha negato qualsiasi attività della sua famiglia come gruppo criminale. Io ho arrestato il collaboratore Lo Giudice Antonino, nell’ambito dell’operazione Olimpia. Quell’occ riguardò soltanto lui, perché non si riuscì, nel materiale offerto dalle indagini, a individuare un altro soggetto della famiglia che avesse condotti assimilabili alle sue. Mi sono occupato anche dell’omicidio di Salvatore Lo Giudice, poi in relazione a un danneggiamento disposi un accertamento per verificare che non fosse legato alle forniture del latte, ma diede esito negativo. Io ho contezza che la stessa squadra mobile aveva derubricato la famiglia dall’elenco delle cosche. Io ho visto il primo provvedimento che è stato contestato a Lo Giudice Luciano, che prevede l’aggravante dell’articolo sette che qui non si nega a nessuno. Vale più delle mie parole».

«AIUTAI LO GIUDICE, FU UN GESTO UMANO»
Luciano, andando a 180 gradi con il comune atteggiamento delle famiglie dei collaboratori, continuava ad occuparsi del fratello. Mi rappresentò questo problema quando io e il collega Macrì avevamo il collegamento investigativo con Reggio come sostituti della Dna. Maurizio Lo Giudice fece pervenire una richiesta di colloquio investigativo, ma non fu svolto da me, ma dal collega Macrì». E sarà solo in seguito a quel colloquio che il procuratore Vincenzo Macrì, che aveva in carico la gestione del collaboratore, scriverà al Dap segnalando le precarie condizioni di salute di Maurizio Lo Giudice per un eventuale avvicinamento alla famiglia di cui lamentava la distanza. Allo stesso modo, sarà sempre Macrì – su richiesta del Tribunale di sorveglianza –  a esprimere parere favorevole alla concessione dei domiciliari, in ragione dell`attendibilità e rilevanza delle dichiarazioni del collaboratore, mai per le condizioni di salute che però – sulla base della certificazione sanitaria del carcere di Opera –  sono state infine la ragione che ha spinto i giudici a concedere i domiciliari al collaboratore detenuto, senza interpellare nuovamente Macrì. Passaggi che il procuratore – delegato alla gestione del collaboratore Maurizio Lo Giudice conosce bene, ma che non è mai stato chiamato a spiegare dai magistrati che hanno messo sotto indagine Cisterna, accusato dal Nano di aver ricevuto da Luciano benefici che non ha mai saputo indicare proprio per la scarcerazione di Maurizio.
Cisterna racconta ancora: «Il secondo episodio mi tormenta ma non me ne pento». Riferisce che Luciano Lo Giudice gli disse che suo figlio era malato e non sapeva a chi rivolgersi, e che lui e sua moglie erano disperati. L`ex numero due della Dna spiega che capitò che l’ammiraglio De Luca gli parlasse di una struttura sanitaria specializzata dove fu ricoverato un parente «e io gli chiesi indicazioni che poi passai a Lo Giudice. Io mi cruccio di questo gesto ma non me ne pento, fu un gesto umano».
«L’indagine a cui sono stato sopposto riguarda un’accusa di corruzione per la scarcerazione del fratello Maurizio, collaboratore di giustizia. La Procura non è stata in grado di indicare un anno, un compenso, o altro. Il procedimento si è definito con un decreto di archiviazione, che ho impugnato». Prima il presidente, quindi la pubblica accusa fanno muro contro le ulteriori domande sul punto dell’avvocato Casalinuovo, interessato a sapere perché Cisterna abbia impugnato il provvedimento. «Sono stato interessato da altri due procedimenti: uno per calunnia nei confronti del dottore Silipo, che in un esposto avevo denunciato come autore di un’informativa alterata, che si è definito qualche giorno fa con un’assoluzione». Anche in questo caso la presidente fa muro. (0020)

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