ARABA FENICE | Colpita l`imprenditoria mafiosa
REGGIO CALABRIA Un’operazione che non ha precedenti nella storia del contrasto alle mafie: così il procuratore della Repubblica, Federico Cafiero de Raho e il procuratore capo della Dna, Franco Rober…

REGGIO CALABRIA Un’operazione che non ha precedenti nella storia del contrasto alle mafie: così il procuratore della Repubblica, Federico Cafiero de Raho e il procuratore capo della Dna, Franco Roberti hanno definito l’indagine “Araba fenice”, coordinata dal sostituto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo che ha oggi ha fatto scattare le manette per avvocati, imprenditori, commercialisti e amministratori di beni confiscati.
«È stata toccata la parte più significativa della ‘ndrangheta, quella cappa di imprenditori che rendano la città più difficile da vivere alle persone oneste ma anche – sottolinea visibilmente soddisfatto Cafiero de Raho – quell’area grigia che rende la struttura imprendibile e più difficile da contrastare». Sono 47 i professionisti destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare accusati, a vario di titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni, abusivo esercizio dell’attività finanziaria, utilizzo ed emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, favoreggiamento, peculato, corruzione, illecita concorrenza ed estorsione, tutti reati aggravati dalle modalità mafiose, mentre altre 17 persone sono state denunciate a piede libero.
HOLDING CRIMINALE SPECCHIO DELLA SUPER-ASSOCIAZIONE
Per gli inquirenti sono tutti responsabili di aver costituito una holding criminale attiva nel settore dell’edilizia privata su diretto mandato e previo accordo dei clan di tutta la città. Dai Fontana-Saraceno, egemoni nella parte nord della città, ai Ficara-Latella, predominanti nella parte sud, passando dai Condello del quartiere di Archi ai Serraino-Rosmini-Nicolò, ai Lo Giudice di zona sud, fino agli Audino, famiglia che sa sempre orbita nella galassia De Stefano-Tegano ma ha la propria storica roccaforte nel quartiere di San Giovannello, tutti i clan erano parte di quella ben organizzata e strutturata «cabina di regia», che tramite imprese e professionisti compiacenti si sarebbe per anni accaparrata i più importanti lavori edili della città di Reggio Calabria. Si tratta della prova concreta, tangibile di quell’ipotesi investigativa che ha ispirato diverse inchieste e dibattimenti che negli ultimi anni hanno portato alla luce i nuovi assetti e le nuove strutture nati dalla pax mafiosa del 91, quando la nascita della super-associazione ha sancito la fine della guerra fra clan che in meno di cinque anni è costata alla città oltre seicento omicidi. Una struttura spiegata in dettaglio da vecchi e nuovi collaboratori di giustizia che con le proprie rivelazioni hanno contribuito alle indagini. Fra loro, ci sono pentiti ormai storici, la cui credibilità è stata già sancita da diversi procedimenti come Roberto Moio, Nino Fiume, Consolato Villani, ma anche nuove voci che potrebbero essere in grado di fornire informazioni importanti su regole e assetti che le `ndrine si sono date in città, come Antonino Lo Giudice, omonimo parente dell’ex collaboratore che si è reso irreperibile nel giugno scorso, ma radicato e attivo nella zona sud della città.
LE INDAGINI
Ed è proprio alla luce di questi elementi che il procuratore capo della Dna Roberti, evidenzia che «è stato colpito un punto nevralgico, quel connubio fra imprenditoria apparentemente legale e le associazioni mafiose che è possibile grazie a imprenditori disponibili e pubblici funzionari disponibili». Un’indagine lunga e complessa, che si è avvalsa dell’apporto significativo degli uomini del Comando provinciale della guardia di finanza agli ordini del colonnello Alessandro Barbera, del Nucleo tributario guidato dal colonnello Domenico Napolitano, del Gico diretto dal maggiore Peppino Abbruzzese, con la collaborazione dello Scico di Roma, coordinato dal generale Giuseppe Maiocco, che ha portato alla luce quello che il procuratore della Repubblica Cafiero de Raho ha definito un «quadro devastante» di occupazione economica criminale della città. Inizialmente concentrate sulla figura di un soggetto poi risultato estraneo al quadro investigativo, le indagini quasi subito si sono concentrate sulla famiglia Calabrò, già nota alle cronache giudiziarie cittadine non solo perché il corpo di uno dei figli, l’imprenditore Francesco scomparso nel 2006, è stato ritrovato non più tardi dell’anno scorso sul fondale del porto di Reggio Calabria, ma anche perché l’altro fratello, Giuseppe, grazie alla sua brevissima collaborazione con i magistrati ha permesso di individuare i killer dei carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi il 18 gennaio 1994 in autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla. Una pagina ancora misteriosa della storia di Reggio città, che forse potrebbe essere almeno in parte illuminata dalle risultanze investigative confluite nell’operazione “Araba fenice”. Il lavoro degli investigatori si è infatti concentrato sull’operazione immobiliare che i Calabrò hanno portato a termine nel quartiere di Ravagnese, storica roccaforte dei Ficara Latella, su un terreno di proprietà di Rocco Musolino, nome di peso della ndrangheta aspromontana ma con pesanti interessi in città. Un’operazione formalmente firmata dalla Edilsud di Giacomo Santo Calabrò e del figlio Antonino, ma che in realtà avrebbe beneficiato tanto del sistema bancario parallelo gestito dalle `ndrine – cui i Calabrò hanno avuto accesso tramite i fratelli Pasquale e Giovanni Bilardi, che hanno messo in contatto i Calabrò con tale Antonio D’Agostino – tanto dei capitali di due noti esponenti di famiglie criminali di Reggio Calabria, Giuseppe Stefano Tito Liuzzo e Antonino Lo Giudice, parente dell’omonimo ex collaboratore. Erano loro i veri e propri “soci occulti” della Edilsud S.n.c., al punto tale da essere interpellati in caso di qualsiasi decisione imprenditoriale, così come per la definizione delle compravendite degli immobili realizzati, senza mai apparire formalmente ed in alcun modo nella compagine societaria. Per gli inquirenti, non a caso, è toccata proprio a Liuzzo, al termine di un vero e proprio summit mafioso, la scelta delle imprese che avrebbero lavorato presso il cantiere della predetta società, dovendosi occupare del completamento delle strutture murarie innalzate, della realizzazione degli impianti elettrici e idraulici, della posa dei pavimenti e delle piastrelle, della pitturazione interna ed esterna, degli infissi e di svariati altri lavori necessari al completamento dello stabilimento residenziale. Lavori e forniture sarebbe stati dunque affidati a “determinati” soggetti economici, risultati essere tutti legati alle varie cosche reggine operanti in città sulla base di un disegno preciso e previamente concordato fra i vertici dei clan, teso alla spartizione, a tavolino di tutti i lavori di edilizia, affinché ogni famiglia di ‘ndrangheta beneficiasse della «propria parte di competenza», consistente in sostanziose «entrate economiche». Un giro d’affari milionario, formalmente giustificato grazie a un vorticoso giro di fatture per operazioni inesistenti, grazie a cui commercialisti compiacenti potevano “sistemare” la contabilità delle aziende espressione della holding criminale.
QUEL BENE CONFISCATO TORNATO IN MANO AL CLAN
Un’attività imprenditoriale decisamente ampia e disinvolta quella di Liuzzo, che si avvaleva della collaborazione e dei consigli dell’avvocato Mario Giglio, cugino dell’ex magistrato reggino condannato qualche mese fa per i suoi rapporti con il clan Lampada. Il legale non solo si sarebbe reso disponibile come «canale di collegamento» per la conoscenza di eventuali indagini a carico dell’imprenditore in virtù dei suoi «importanti agganci e amicizie», ma «in veste professionale, non si limitava a mettere le proprie competenze a disposizione del Liuzzo – spiega Cafiero de Raho – ma lo consiglia su come riappropriarsi e continuare ad approfittare del bene che in precedenza gli era stato confiscato». Un’operazione illecita che _ secondo le indagini – sarebbe stata possibile gr
azie all’infedeltà di una delle commercialiste che per il Tribunale di Reggio si occupa di beni confiscati, Francesca Marcello, custode della Euroedil, in precedenza sequestrata e confiscata proprio a Liuzzo. Grazie alla presunta connivenza dell’impiegato di banca Giulio Lugarà, che si occupava delle operazioni sul conto corrente bancario della ditta, la Marcello – in totale posizione di sottomissione, sottolineano gli inquirenti – ha consentito a Liuzzo di continuare liberamente nella gestione della stessa Euroedil, ottenendo in cambio favori e vantaggi personali, come nel caso dei lavori che lo stesso Liuzzo ha effettuato, o ha fatto effettuare, nella sua abitazione. Ma la Marcello non era l’unica professionista che assieme a Giglio avrebbe permesso a Liuzzo di continuare a prosperare. A collaborare attivamente con l’imprenditore, pur essendo ben coscienti dell’illegalità dei suoi affari – per gli inquirenti –, sono stati anche i commercialisti Carmelo Quattrone e Francesco Creaco. I due noti professionisti reggini non si sarebbero limitati all’attività di consulenza, ma si sarebbero convertiti in vere e proprie menti finanziarie al servizio di Liuzzo, tanto da consigliargli una rivisitazione societaria per evitare eventuali sequestri o confische. Attività costanti e decisive, che soprattutto Quattrone avrebbe rendicontato pedissequamente a Natale Assumma, cognato e factotum di Liuzzo.
LA NUOVA IMPRENDITORIA MAFIOSA
È questa la devastante fotografia della nuova imprenditoria ‘ndranghetista basata su vincoli di affiliazione che hanno come unica matrice il denaro e l’ingiusto arricchimento e che si avvale dell’indispensabile contributo di professionisti ugualmente senza scrupoli, spesso – come nel caso dell’avvocato Giglio – assimilabili in tutto e per tutto ad affiliati al clan. Una strategia che non a caso – spiega il procuratore nazionale antimafia Roberti – si è concentrata sull’edilizia privata, in passato vessata da estorsioni a tappeto, oggi direttamente controllata dai clan grazie a compiacenti prestanome. Una strategia possibile anche grazie all’assenza di una normativa aggiornata e all’altezza – come quella relativa agli appalti pubblici – e che richiede interventi urgenti. Non a caso Roberti ha voluto sottolineare: «L`operato della magistratura e delle forze dell’ordine non basta, ma è necessaria la prevenzione. L’economia criminale frena lo sviluppo e questo non è ancora stato compreso a sufficienza. Qualsiasi attività edilizia in questo territorio si deve sottomettere alla volontà delle `ndrine, che non creano ricchezza né la distribuiscono, ma si limitano ad accumularla». Parole che fanno il paio con la constatazione amara del procuratore della Repubblica Federico Cafiero de Raho che commenta: «Quest’indagine è frutto solo delle attività tecniche e delle rivelazioni dei collaboratori, non ci sono state denunce. Nonostante un controllo del territorio asfissiante, nessuno è venuto da noi. Questa è una città in cui tutti parlano, ma lo fanno all’orecchio. Lo spaccato che emerge è incredibile». (0050)