Uccisa e fatta sparire, condannati a trent`anni
REGGIO CALABRIA Per il Tribunale di Reggio Calabria sono Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì rispettivamente il mandante e l’esecutore materiale dell’omicidio di Angela Costantino, la giovane…

REGGIO CALABRIA Per il Tribunale di Reggio Calabria sono Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì rispettivamente il mandante e l’esecutore materiale dell’omicidio di Angela Costantino, la giovane moglie del boss Pietro Lo Giudice, scomparsa senza lasciare traccia il 16 marzo del 1994. Il gup di Reggio Calabria Carlo Alberto Indellicati ha accolto in pieno le richieste del pm Sara Ombra, titolare dell’accusa, comminando ad entrambi una condanna a trent’anni.
Nonostante il loro principale accusatore – il pentito Maurizio Lo Giudice – abbia ritrattato le sue dichiarazioni proprio alla vigilia della sentenza, con una lettera fatta pervenire al gup, alla Procura e alle difese, il giudice ha ritenuto valido l’impianto accusatorio costruito dal pm Ombra, disponendo per entrambi una condanna durissima.
Stando alla ricostruzione della Procura, la morte di Angela sarebbe stata decretata e eseguita all’interno della famiglia per lavare nel sangue la relazione extraconiugale che la donna avrebbe iniziato mentre il marito era in galera. Sposata giovanissima a Pietro Lo Giudice, Angela è solo una ragazza di 25 anni, già madre di quattro figli e vedova bianca di un boss in galera, quando – è la ricostruzione degli inquirenti – all’inizio degli anni Novanta, si azzarda a pensare di poter vivere un`altra vita. O anche solo di strappare alla sua quotidianità di moglie, cognata e parente di “uomo d`onore”, dei momenti di felicità con un altro uomo capitato per caso nella sua esistenza. Un uomo dal quale Angela resta incinta. Ma il marito è già da troppo tempo in galera e quella gravidanza non è giustificabile in nessun modo. Per la famiglia è un marchio di infamia, una manifestazione di debolezza, un segno di resa. Espropriata del diritto di decidere della sua stessa vita, del suo stesso corpo, Angela china la testa. Obbedisce. E abortisce. Ma – prosegue la ricostruzione della Procura – al clan non basta. Le notizie corrono, le voci girano e Angela è diventata, lei stessa, un marchio di infamia. Che deve essere cancellato in nome di un distorto concetto di onore, di cui le `ndrine si riempiono la bocca, ma che calpestano quotidianamente sotto le suole. In due strangolano una donna indifesa, in sei contribuiscono a occultarne il cadavere e il delitto. Un`intera famiglia sa e nasconde per quasi vent`anni. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti grazie alle rivelazioni dei pentiti del clan Lo Giudice – Maurizio prima, Nino il “Nano” poi – e di altri collaboratori di giustizia come l’ex capolocale di Gallico, Paolo Iannò, Angela sarebbe stata sorpresa in casa da Natino Pennestrì, all’epoca appena diciannovenne. Su mandato dello zio, l’avrebbe strangolata e insieme avrebbero fatto sparire il corpo, mai più ritrovato. Di lei rimarrà solo l’auto, fatta ritrovare a pochi giorni dalla scomparsa a Villa San Giovanni. All’interno, saranno opportunamente collocate anche le ricette mediche del Servizio di salute mentale che serviranno per giustificare la presunta depressione che – secondo le versioni fornite all’epoca dai familiari – avrebbe spinto la donna ad allontanarsi. Oggi la sentenza. (0070)