Giustizia imbrigliata in ritardi e carenze di organico
REGGIO CALABRIA Non pecca certo di chiarezza l’intervento con cui il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Giovanni Battista Macrì, ha voluto segnare l’apertura dell’anno giudiziario n…

REGGIO CALABRIA Non pecca certo di chiarezza l’intervento con cui il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Giovanni Battista Macrì, ha voluto segnare l’apertura dell’anno giudiziario nel distretto reggino. «Il quadro di riferimento non cambia – dice l’alto magistrato – la crisi della giustizia non si risolve, né si attenua anzi si aggrava nella misura in cui tardano ad essere apprestati i necessari rimedi». Una situazione di crisi cristallizzata nella «lentezza dei tempi di decisione dei giudizi, civili e penali, che mina la certezza delle decisioni giuridiche, ostacola lo sviluppo economico e gli investimenti di impresa, elide l’effetto deterrente della pena, alimentando la sfiducia dei cittadini delle istituzioni», ma da cui per il presidente della Corte d’appello reggina non si potrà mai uscire «senza innovazioni legislative di vasta portata e una consistente provvista di risorse umane e materiali». Ma se ormai quello della giustizia tartaruga è un dato ormai assodato, nessuna riforma sarà possibile – dice Macrì – senza affrontare le cause di tale rallentamento ormai strutturale: «Una legislazione sostanziale invasiva, che per un verso produce un contenzioso civile a volte corrivo e fittizio e, per l’altro, espande l’area di rilevanza penale», insieme ad «un apparato processuale vetusto, che sacrifica il valore della giustizia sull`altare di un esasperato garantismo».
I problemi della giustizia
È dal combinato disposto di questi fattori che per Macrì viene fuori «l’arretrato impressionante» con cui ogni possibile risorsa della giustizia si deve misurare, evitando scorciatoie che passano per il ripensamento della figura del giudice, considerato espressione di «una casta, un corpo pigro e privilegiato» da cui pretendere maggiore rendimento. Ma soprattutto, emerge una giustizia che non è in grado di stare al passo con i tempi, perché incapace di dare una risposta «certa, sollecita, aderente alla sostanza delle cose». Sottoposta ad un continuo riesame, imbrigliata in meccanismi processuali che «si ergono a baluardi del garantismo, ma in realtà lo negano, incoraggiando i meccanismi dilatori», condizionata da «un armamentario dottrinario e giurisprudenziale non al passo con i tempi», la risposta che la giustizia italiana è in grado di dare alla società, per il presidente della Corte d’appello reggina non è adeguata all’evoluzione della realtà stessa.
E purtroppo – sottolinea Macrì – le proposte di riforma fino ad oggi teorizzate non affrontano il problema, né saranno in grado di risolverlo. Sul punto, il presidente della Corte d’appello, ha le idee estremamente chiare: non serve sancire «l`indipendenza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero, perché assoggetterebbe sia pure indirettamente il pubblico accusatore al condizionamento del potere esecutivo», tanto meno «una restrizione delle intercettazioni, che depotenzi la lotta alla criminalità», e meno ancora «una rimodulazione della disciplina della prescrizione, che si trasformerebbe in una larvata amnistia». Quello che serve ed è necessario ed urgente è una «rottamazione dell’arretrato», possibile solo attraverso un «riformismo sostanziale e processuale».
Le riforme necessarie
Senza una riforma dei codici e delle procedure, anche il mero aumento del numero dei magistrati in servizio – spiega Macrì – non sarebbe che una soluzione temporanea, destinata a lungo andare a riproporre quel muro di contenziosi pendenti che oggi ingolfa la giustizia italiana. Una riforma che non può che passare sul piano civile, attraverso la regolamentazione dei rapporti giuridici e la semplificazione delle procedure di risoluzione dei conflitti attraverso riti alternativi, mentre sul versante penale per Macrì sarebbe necessaria tanto una «gigantesca depenalizzazione» quanto una contrazione dei reati perseguibili d’ufficio, che liberi i tribunali da giudizi su reati di scarso allarme sociale, come una riforma del «carattere rigidamente accusatorio del rito, imperniato sulla defatigante acquisizione della prova in dibattimento e che quindi procede stancamente tra rinvii e acquisizioni dibattimentali».
Custodia cautelare e responsabilità civile del giudice
E Macrì, in conclusione, non sembra aver intenzione di sottrarsi ai due argomenti con cui da tempo si cerca di far breccia nell’opinione pubblica in nome di un presunto garantismo. «Mi auguro che la disciplina della custodia cautelare che si annuncia non sia motivata solo dall’intento di depotenziare l’ambito operativo dell’istituto», sottolinea l’alto magistrato, che più tempo dedica alla ormai annosa questione della responsabilità civile dei magistrati. Un argomento «fuorviante e suggestivo» perché se da una parte «il giudice è esente non da responsabilità civile, ma da responsabilità civile diretta, giacché il responsabile diretto, lo Stato, agisce in rivalsa sul giudice», ma soprattutto suggestivo nella misura in cui paragona la condizione del giudice a quella di un qualsiasi altro professionista. «Al giudice – spiega Macrì – si chiede di scegliere fra due parti contrapposte, fra verità opposte, qui sta il fondamento della diversa disciplina della responsabilità civile, qui sta la ragione dei diversi gradi di giudizio».
La risposta della politica
Temi, questi ultimi, che nessuna delle due esponenti politiche invitate a prendere parte alla cerimonia con un breve intervento – Federica Dieni del Movimento 5 Stelle e Rosanna Scopelliti, del Nuovo Centrodestra – sembra volere affrontare nello specifico, pur abbozzando una propria personale opinione sulle ormai necessarie riforme. Per la Dieni – che ringrazia i magistrati per il lavoro svolto e vuole esprimere pubblicamente la propria solidarietà al pm Nino Di Matteo – «il settore Giustizia è stato sottoposto a interventi disomogenei che oggi ne hanno limitato l’efficacia», per questo l’auspicio è «che il Parlamento intervenga con una riforma organica, cui lavorare insieme alla magistratura». Da parte sua la Scopelliti, che inizia il suo intervento ricordando di essere «figlia di un magistrato che ha onorato con il sangue la toga, figlia di un martire», si scaglia contro l’ipotesi di indulto oggi da più parti messa al centro della discussione, ricordando una frase «che – dice – fu di mio padre: “Bisogna saper distinguere i diritti di chi osserva la legge e di la infrange”». Infine pur auspicando una «riforma della giustizia da scrivere assieme alla magistratura», la Scopelliti non rinuncia ad attaccare quei magistrati «che hanno una sovraesposizione mediatica» o quelli che intendono il proprio ruolo come mirato a una «bonifica politica».
Di Landro: «Senza l’apporto della società civile
non si combatte la `ndrangheta»
Di ben altri attacchi cui è stata sottoposta la magistratura reggina, ed in particolare la Procura generale, parla invece il procuratore generale Salvatore Di Landro, destinatario di una serie di attentati e intimidazioni su cui ancora – sottolinea – è necessario fare luce. «Anche accedendo alla tesi della condotta materiale riconducibile alla cosca Lo Giudice per i due attentati dinamitardi alla sede della Procura generale e alla mia abitazione, rimane ineludibile la domanda del contesto generale e della causale, da escludersi per il predetto modesto clan – dice chiaramente –. È possibile che essi siano stati posti in essere dalla predetta cosca, ma quel che non si è assolutamente accertato è la motivazione di tali fatti criminosi, di gravissima portata pure per questa terra».
Il rischio da cui il Procuratore generale vuole mettere in guardia è «una visione parcellizzata, frammentaria» del fenomeno. «La `ndrangheta è riuscita a costruirsi come organizzazione unitaria, ad espandere in misura straordinaria il proprio potere, la propria ricchezza», afferma il procuratore generale che ricorda che «il tempo non ha scalfit
o l’intendimento di imporre la propria presenza, la possibilità di incidere sulla società civile con la dimostrazione di poter colpire anche le Istituzioni». Istituzioni come la Procura generale, «un tempo ufficio giudiziario poco noto e ritenuto di scarso perso» – rivendica Di Landro – oggi diventata «assurta al ruolo di forte baluardo contro la criminalità al punto da apparire come un emblema».
E significativo in tal senso per il procuratore generale è stato proprio «l’atto intimidatorio dimostrativo» compiuto da Eros Benito De Francesco, che non più tardi di qualche mese fa ha scelto di lasciare di fronte alla Procura generale una bottiglia incendiaria e un accendino. «Perfino un balordo, se così è stato, ritenendo di attentare alla giustizia, ha identificato in questo Ufficio il simbolo da colpire», dice con preoccupazione mista a orgoglio il Procuratore Di Landro che conclude: «Grazie all’applicazione del principio della rigorosa attuazione della legge del dovere, posso affermare di aver superato bene la serie di ostacoli e di difficoltà che si sono frapposti sul mio cammino, costituite anche da stupide e malevole letture riduttive da parte di piccoli individui in cerca di spazio e notorietà». (0050)