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Ascesa e declino della cosca Serraino

REGGIO CALABRIA «Le numerosissime intercettazioni di cui il Tribunale dispone sono la sintesi migliore di mille sfaccettature, intonazioni, sottintesi del modo di parlare di chi consapevolmente fa pa…

Pubblicato il: 13/02/2014 – 8:29
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Ascesa e declino della cosca Serraino

REGGIO CALABRIA «Le numerosissime intercettazioni di cui il Tribunale dispone sono la sintesi migliore di mille sfaccettature, intonazioni, sottintesi del modo di parlare di chi consapevolmente fa parte di un`organizzazione di tipo mafioso: quello non è il mio linguaggio, non è il linguaggio dei calabresi perbene, in quei messaggi violenti originati da arroganza culturale tipica di chi non regge il confronto ad armi pari, ci sono i significati che hanno reso, nell’indifferenza generale, la ‘ndrangheta quella che è oggi». Così il pm Giuseppe Lombardo, in sede di requisitoria, aveva invitato il Tribunale presieduto da Silvana Grasso a valorizzare le migliaia di conversazioni intercettate fra gli imputati, quindi depositate agli atti del processo conclusosi per loro con pesantissime condanne dai 13 ai 16 anni di reclusione. E il Collegio che ha emesso quella pesantissima sentenza sembra aver voluto cogliere quell’esortazione, valorizzando nelle motivazioni di quel giudizio le centinaia di conversazioni esaminate anche attraverso «l’ascolto diretto dei files audio – scrivono i giudici – allo scopo di acquisire una contezza quanto più completa del materiale disponibile e di cogliere, ove possibile, le sfumature dei dialoghi ivi rappresentati».

IL TENTATIVO DI RIGENERAZIONE
Un mosaico di voci che per il Tribunale dimostra che la storica cosca Serraino – dopo gli arresti, dopo la morte del capo storico don Mico – si è dimostrata in grado di rigenerarsi, forgiando nuove e aggressive leve, pronte a imporsi su un territorio che sentono di esclusiva proprietà e pertinenza. «Nessun evento delittuoso poteva consumarsi a Cardeto e dintorni senza che vi fosse il preventivo assenso della cosca Serraino», ricordano i giudici in sentenza analizzando i dialoghi fra gli imputati, e allo stesso modo «solo le imprese che ricevevano l’avallo dei Serraino potevano lavorare in quelle zone». Dati che emergono chiaramente dalla viva voce dei protagonisti dell’indagine e dimostrano – si legge nelle motivazioni della sentenza – «come la cosca Serraino fosse un unicum operante, secondo quanto già visto, nel territorio di Cardeto e zone limitrofe (ramo al quale appartengono gli odierni imputati Alati Antonino e Serraino Demetrio) e attiva, altresì, nel territorio di San Sperato attraverso le “giovani leve”, in gran parte imputati nel presente procedimento (Giardiniere Fabio Antonino, Cortese Maurizio, Tomasello Francesco e Siclari Giovanni). Discorso a parte merita Serraino Alessandro, trait d’union tra le giovani reclute e il ceppo storico di Cardeto, riconosciuto al vertice della cosca per diretto volere di Serraino Domenico, del quale ha ereditato la posizione di comando».

NUOVE LEVE, CLAN ANTICO
Nuova linfa per un vecchio clan che ha tentato – in maniera estremamente efficace – di rigenerarsi attraverso quei ragazzi del banco nuovo – e chi, in qualità di capo, li dirigeva – che si pongono in assoluta linea di continuità con la strada perseguita dai familiari prima di loro. Non a caso «i maggiorenti della consorteria, oltre a esercitare la primazia nel territorio di San Sperato mediante le “giovani leve” (tra cui gli odierni imputati Giardiniere Fabio Antonino, Cortese Maurizio, Tomasello Francesco e Siclari Giovanni), mantenevano (in particolare nel periodo monitorato tramite le indagini tecniche) il controllo del territorio storico di dominio (Cardeto), laddove proseguivano a operare alcuni degli accoliti odierni imputati (Serraino Alessandro, Serraino Demetrio e Alati Antonino)». Non a caso i giudici non hanno alcuna difficoltà a concludere che «gli episodi delittuosi suesposti, la pericolosità sociale degli accoliti – quale si evince agevolmente dalla facilità con cui ponevano in essere delitti di ogni genere (dalle rapine al riciclaggio, dai danneggiamenti all’utilizzo di esplosivi) – il reclutamento delle nuove leve per il presidio del territorio di San Sperato, la disponibilità di armi, la capacità di infiltrazione nel campo degli appalti pubblici e nei settori commerciali della distribuzione di caffè (la cui fornitura veniva imposta, come nel caso del Bar Sirio, avvalendosi della conosciuta capacità di intimidazione del clan) e di farinacei, l’egida della famiglia Serraino – cosca che già aveva partecipato alla seconda guerra di ‘ndrangheta e si era affermata, da tempo, nel panorama della criminalità cittadina, tanto che tutti sapevano di doversi interfacciare con gli esponenti del clan per ogni questione attinente ai lavori e ai cantieri presenti sul territorio presidiato – consentono di ravvisare quella «capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti richiesta dalla legge per l’integrazione del reato di associazione mafiosa».

DA DEMETRIO A LISCIANDRO
A traghettare il clan nel delicatissimo passaggio della riorganizzazione, è il vecchio boss Demetrio Serraino, «referente della cosca – si legge in sentenza – soprattutto in un momento in cui, essendo Paolo e Domenico detenuti (anche se quest’ultimo in regime domiciliare), egli rimaneva il solo fratello libero di agire e di muoversi». È dunque toccato a lui guidare le giovani leve e il capo per loro scelto – Alessandro “Lisciandro” Serraino – nella prime complicate fasi di riorganizzazione e rilancio attraverso «statuizioni di rilievo attinenti alla vita dell’associazione, quale quella inerente all’individuazione – di concerto con il fratello Serraino Domenico, capo indiscusso dell’omonima cosca – dei “limiti” di operatività dei singoli accoliti all’interno del territorio di comune predominio del clan e attraverso la partecipazione e il coordinamento delle attività estorsive legate all’infiltrazione della ‘ndrina negli appalti per i lavori pubblici della zona». Un ruolo riconosciuto tanto dai componenti del suo clan, come nell’ambito della ‘ndrangheta reggina se è vero che è a lui che si rivolgono uomini del calibro di Michele Oppedisano e Nicola Gattuso per informarsi sulle dinamiche interne al clan, come per chiedere l’autorizzazione per introdurre  tabacchi contraffatti acquistati dalle cosche di Archi all’interno del territorio di competenza «a dimostrazione, ancora una volta – sottolinea il Tribunale – di come l’imputato avesse competenze organizzative in seno all’organigramma associativo».

L’EREDE
Un ruolo che avrebbe dovuto ereditare  Alessandro  Serraino, figlio del capo storico dei Serraino, il defunto boss Don Mico. Protetto dall’autorità dello zio, “Lisciandro” era il «referente della cosca e soggetto al quale i sodali dovevano rivolgersi per l’ottenimento di cariche di ‘ndrangheta e per il rinnovamento del “banco nuovo”, ma anche «la figura di rappresentanza esterna della cosca, che si avvaleva sì, prevalentemente, di altri per la gestione degli interessi economici e per il compimento di attività illecite, ma che riconosceva in Serraino Alessandro – per come voluto dal padre, capo storico, Serraino Domenico – un soggetto di riferimento nella direzione e nella rappresentanza della cosca». Un “elemento di spicco” – lo si definisce in sentenza – non amato né stimato, ma temuto e rispettato, come si evince dalle tante conversazioni intercettate che dimostrano come «venisse interpellato ogni qual volta i sodali dovessero risolvere problemi legati ad accadimenti nel loro territorio, a dimostrazione di come egli si situasse, nonostante la disistima che gli accoliti spesso riservavano alle sue capacità decisionali, ai vertici dell’organigramma associativo». Uno scetticismo riguardo la sua adeguatezza al ruolo decisionale ereditato che per il Tribunale «non esclude, bensì presuppone quest`ultimo, in quanto – spiegano i giudici – è certo che anche un dirigente eventualmente non stimato non cessa, per ciò solo, di rivestire la q ualifica ricoperta». Alessandro Serraino – affermano con sicurezza i magistrati – era un capo che esercitava attivamente il proprio ruolo «impartendo i dettami relativi alla formazione del “banco unico”, intervenendo attivamente laddove richiesto, facendosi portavoce della cosca, disponendo – tramite la mediazione diretta del cognato Giardiniere – di un nutrito gruppo di giovani per il controllo del territorio, partecipando alla distribuzione del caffè Borbone e inserendosi nel controllo degli appalti per la costruzione della diga del Menta (ciò che costituisce volontaria accettazione della posizione derivatagli, questo sì, ma solo inizialmente, iure hereditatis), tanto che non fu mai deposto dalla cosca, che continuava a considerarlo il referente principale».

IL RACCORDO CON IL “BANCO NUOVO”
Ruoli e circostanze confermate anche da collaboratori come Marco Marino e Vittorio Fregona, le cui dichiarazioni si sono rivelate fondamentali anche per inquadrare il ruolo di personaggi del calibro di Fabio Giardiniere e Maurizio Cortese, quali fondamentali elementi di raccordo fra i vertici del clan e i “ragazzi del banco nuovo”.  Cognato di Alessandro Serraino, per i magistrati Giardiniere è un elemento di rilievo del clan, incaricato del reclutamento e della gestione dei giovani affiliati, cui più di una volta rimprovera «i comportamenti eccessivamente “fuori dalle righe” (..) che avrebbero potuto – da un lato – portare a frizioni con appartenenti ad altre cosche (con le quali, come delineato dalle sentenze irrevocabili di cui in premessa, vige da oltre un ventennio un clima di non belligeranza e accordo nelle spartizioni) e – d’altro lato – catalizzare l’attenzione delle forze dell’ordine e portare le stesse a sviscerare i collegamenti fra quei soggetti e le attività della criminalità organizzata». Ma il suo ruolo non si limita a questo. Forte del suo ruolo è a lui che viene affidata la gestione di una delle attività economiche di interesse della cosca, come la rappresentanza e la distribuzione della nota marca di caffè Borbone. Forniture che – stando a quanto dimostrato dal dibattimento e sottolineato dai giudici in sentenza – non avrebbe esitato ad imporre anche attraverso la forza dell’intimidazione, come nel caso del Bar Sirio, bersagliato a colpi di pistola per aver detto di no a una partita di caffè.
Diverso ma strettamente connesso è il ruolo di Maurizio Cortese, per i giudici titolare di un «ruolo organizzativo di raccordo tra gli accoliti alla base (ei quali disponeva e per i quali fungeva da referente) e i vertici dell’associazione Giardiniere Fabio Antonino e Serraino Alessandro – attuata attraverso la messa a disposizione delle proprie risorse al servizio del clan e la gestione in prima persona di una delle attività economiche di interesse della cosca, ovvero la rappresentanza e la rivendita all’ingrosso di prodotti farinacei, nonché collaborando con Giardiniere Fabio Antonino e Barbaro Antonino nella distribuzione del caffè Borbone (anch’essa attività della cosca)». È questo l’organigramma della rinata cosca Serraino con cui il clan della montagna sperava di ritornare ai fasti dei decenni passati. Sono queste le nuove fondamenta di un antico impero, distrutto ancora prima della sua rinascita. (0040)

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