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La Calabria di maniera del "Giudice meschino"

REGGIO CALABRIA «Questo non è un film di ‘ndrangheta, ma siamo riusciti a coniugare questo aspetto con la promozione del territorio. Abbiamo coniugato l’aspetto della promozione del territorio che è…

Pubblicato il: 02/03/2014 – 10:03
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La Calabria di maniera del "Giudice meschino"

REGGIO CALABRIA «Questo non è un film di ‘ndrangheta, ma siamo riusciti a coniugare questo aspetto con la promozione del territorio. Abbiamo coniugato l’aspetto della promozione del territorio che è stato valorizzato molto in questa produzione». Che il governatore Giuseppe Scopelliti non abbia mai amato i film che raccontano lo strapotere delle ‘ndrine in Calabria è cosa nota, per questo in molti si erano stupiti quando – proprio dalla Regione – era arrivato l’annuncio della trasposizione cinematografica della pluripremiata opera di Mimmo Gangemi, “Il giudice meschino”. Ma adesso che la miniserie è stata realizzata, alla vigilia della sua messa in onda in prima serata su Raiuno, non è difficile comprendere come mai la luce verde sia infine arrivata e il produttore Fulvio Lucisano sia infine riuscito a vincere la battaglia per la realizzazione de “Il giudice meschino” in Calabria. Della holding criminale, che dalla Calabria riesce a controllare uomini, capitali, aziende, istituzioni, piccoli e grandi governi,  in alcuni casi intere economie di diversi Stati del globo, nella trasposizione cinematografica della nota opera di Gangemi c’è poco o nulla. Così come poco rimane della profondità e dello spessore della storia, dei personaggi – fotografati in tutta la loro devastante umanità –che attraverso le trecento pagine del libro l’autore ha sviscerato. Eppure l’autore, intervenendo prima della proiezione ha commentato: «È una grande emozione, un grande orgoglio, una grande soddisfazione.  Credo che tutti gli scrittori ambiscano a una trasposizione cinematografica della propria opera, quindi mi sento fortunato».
Parole grate, dettate – forse – dall’emozione di un traguardo importante, un film che nelle intenzioni Gangemi avrebbe dovuto essere «di denuncia e di riscatto» allo stesso tempo, ma – forse – premature. «Ho seguito le riprese anche se non sono in grado di dire quale sia il risultato finale perché non si gira con una successione cronologica e ancora non ho visto il prodotto finito. Ad esempio, la scena iniziale è stata l’ultima ad essere girata, quindi devo aspettare anche io come voi di vedere cosa sia venuto fuori». Non è dato sapere come Gangemi abbia valutato quanto visto sullo schermo. Ma in un Cilea stracolmo quella che va in scena – dopo una serie di disguidi tecnici che hanno costretto l’organizzazione a ribaltare il programma della serata, anticipando dibattito e premiazione, inizialmente previsti per la conclusione – sullo schermo è una splendida cartolina di Reggio e del reggino che fa da sfondo a personaggi tanto caratterizzati da sembrare quasi macchiette. Gli ‘ndranghetisti sono grassi, sporchi, brutti, vecchi e spesso pelosi, zotici oltremodo, bestiali e selvaggi anche quando ostentano una pacchianeria troppo costruita per essere reale. Le donne di Calabria sono ombre in nero, pizzicate immancabilmente ai fornelli, al cimitero o intente ad accudire un figlio malato, mentre i personaggi principali – il sempre bravo Luca Zingaretti, nei panni del magistrato Alberto Lenzi e una meno convincente “marescialla” Luisa Ranieri – sembrano muoversi a distanza siderale dal contesto in cui la storia li vorrebbe calati. Quasi turisti in un intreccio che sembra loro poco appartenere. Rimane allo spettatore l’immagine di una città tanto bella da essere quasi irriconoscibile. Senza immondizia per le strade, graziata da cieli da cartolina, Reggio è quasi irriconoscibile. I campi stretti delle riprese tagliano i muri scrostati, i palazzi abusivi, i muri sbreccati, le periferie abbandonate, lasciando sullo schermo l’immagine di una città bomboniera difficile da riconoscere. Perfetta per un set, complicatissima da vivere nella realtà.
Nel presentare il film, in attesa della risoluzione dei problemi tecnici, il regista Carlo Carlei si è lasciato scappare: «Questo contrattempo è quasi una metafora della Calabria. C’è un popolo in silenzio, al buio, al freddo che attende con pazienza». Una metafora che ha quasi il sapore di una condanna, che con una miniserie non si riesce a espiare. (0040)

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