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"Meta", nelle pieghe dell`indagine

REGGIO CALABRIA Non “Meta”, ma metà. Non un punto di arrivo, ma un punto di partenza, frutto della valorizzazione di elementi del passato, ma che traccia il cammino per il lavoro, le indagini, le ver…

Pubblicato il: 17/03/2014 – 23:42
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"Meta", nelle pieghe dell`indagine

REGGIO CALABRIA Non “Meta”, ma metà. Non un punto di arrivo, ma un punto di partenza, frutto della valorizzazione di elementi del passato, ma che traccia il cammino per il lavoro, le indagini, le verità future. Questa è per il pm Giuseppe Lombardo, l’indagine che dopo tre anni di processo e oltre novanta udienze è sfociata in una requisitoria che non solo ha permesso di sviscerare una nuova, attualizzata, concezione della struttura della ‘ndrangheta visibile, ma ha piantato anche i paletti per il lavoro futuro. Quello che è destinato a puntare al cuore di un sistema criminale di cui ‘ndrangheta, camorra e Cosa Nostra, sono pericolosissime – e per questo da sanzionare duramente – socie di minoranza. Adesso però il pm Lombado punta al “socio di riferimento”, il regista che da dietro le quinte ha influenzato le scelte e mosso le pedine sulla scacchiera dei conflitti, dei traffici, dei rapporti, dei depistaggi.

LA ‘NDRANGHETA FORMA DELL’ACQUA
E QUEL RECIPIENTE ANCORA DA TROVARE
“Volete che io mi stupisca nel momento in cui riaffermo che la ‘‘ndrangheta ha la forma dell’acqua? Non mi stupisco, ma mi stupisco invece del fatto che l’acqua prende la forma dei recipienti che la contengono e mi stupisco nel momento in cui non si fa uno sforzo per comprendere chi ha modellato quel recipiente, chi lo ha allargato, chi lo ha reso più capiente, chi spesso e volentieri lo ha trasformato in un vaso enorme”, tuona in un’aula gremita e attenta il pm, che su un punto vuole richiamare l’attenzione. “Se non siamo ancora riusciti a dimostrare qual è l’intento di colui il quale modella il contenitore all’interno del quale l’organizzazione criminale si muove e opera, non è perché non siamo stati capaci, non è perché siamo privi di mezzi e di conoscenze, non è vero che le indagini finiscono nel momento in cui ci sono problematiche di lettura, come non è vero che le fughe di notizie, che spesso e volentieri si registrano, sono casuali o legate a interessi personali. Spesso e volentieri quelle difficoltà che non riusciamo a superare sono difficoltà volute da chi modella quel vaso, da chi è convinto che la magistratura sia così stolta da non rendersi conto che Giuseppe De Stefano  è il vertice della ‘‘ndrangheta di città, Pasquale Condello è uno dei capi storici della stessa organizzazione, così Giovanni Tegano, così Pasquale Libri, ma non è in grado di dimostrare che quel ruolo non se lo sono autoassegnato. Quel ruolo è stato il frutto di un percorso lungo che andava interrotto nel momento in cui sono stati acquisiti i particolari di una determinata evoluzione”.

LE TRACCE DI OLIMPIA
Un’occasione probabilmente mancata all’indomani del processo Olimpia, quando tanto dall’inchiesta, come dai lunghi dibattimenti che da quell’indagine sono scaturiti, sono emerse tracce importanti su quella struttura della ‘ndrangheta che dopo la pax del 91 ha cambiato pelle e volto, ma anche su quegli elementi che già prima della seconda guerra di ‘ndrangheta rendevano le ‘ndrine del mandamento di Reggio “le più intelligenti, le più evolute, quelle con più importanti penetrazioni con quel contesto a cui carico si procede in altro procedimento”. L’ombra degli invisibili è antica, ed è proprio da quel patto di sangue che affonda le radici nella storia del dominio della ‘ndrangheta reggina e lo ha reso possibile, che bisogna andare a cercare – spiega il pm – per cogliere pienamente il ruolo degli odierni imputati.
Per questo spiega Lombardo, “oggi è arrivato il momento di cambiare la cura che abbiamo riservato alla patologia, procedendo  a una nuova e più attenta anamnesi del fenomeno quale antecedente logico di una più corretta diagnosi, perchè mi fa obiettivamente sorridere che  i continui risultati che riusciamo a produrre vengano sbandierati come grandissimi successi, quando poi parallelamente interrogati su quelle che sono le organizzazioni criminali storiche, ci troviamo a ripetere “sono sempre più ricche, potenti, all’interno degli ambienti che contano”.
Una contraddizione che a detta del pm si vince andando a valorizzare quegli elementi che già negli anni novanta portavano il primo pool antimafia costituito a Reggio Calabria, a cristallizzare nel capo di imputazione F18 quella che – già allora – avevano intuito fosse la strada evolutiva della ‘ndrangheta reggina, o meglio, di alcune selezionate famiglie che su quella ‘ndrangheta visibile, militare, hanno sempre dominato. “Un organismo decisionale posto in essere a decorrere dall’estate del 91, estate fondamentale nella storia di questa terra – ricorda Lombardo – all’interno di questa nuova struttura che prendeva il nome di Cosa nuova, allo scopo di assumere le decisioni più importanti e di risolvere le controversie insorte fra i vari clan, di tenere i rapporti con altre organizzazioni criminali nazionali e internazionali, con la massoneria e con le istituzioni”. Una definizione sintetica che pur non avendo superato lo scoglio delle pronunce dei Tribunali che sono stati chiamati a esaminarla “a causa degli insufficienti elementi di prova soprattutto alla luce del vecchio codice”, sottolinea il sostituto, già diceva tutto di quel processo di rigenerazione e evoluzione che proprio in quegli anni era in corso. “Ma oggi – mette subito in chiaro Lombardo – quegli elementi ci sono”.

“LE PROVE OGGI CI SONO”
Affondano le radici nelle acquisizioni investigative e nelle rivelazioni che collaboratori di peso come Giacomo Ubaldo Lauro, Giuseppe Scopelliti, Filippo Barreca, hanno fatto all’epoca, vengono straordinariamente confermate non solo da collaboratori di epoca più recente come Paolo Iannò e Nino Fiume, ma soprattutto dalla viva voce degli imputati, studiati, pedinati, intercettati in anni e anni di indagini e di lavoro. “Fiume, per lungo tempo fidanzato dell’unica figlia femmina  di don Paolo De Stefano, è un familiare, una persona di strettissima fiducia di chi come Giuseppe De Stefano in quel momento si apprestava a un salto di qualità, e per questo era destinatario di confidenze, anche in termini di sfumature. Le confidenze che De Stefano gli fa dopo la riunione di Nicotera, alla quale Fiume ammette di non aver partecipato affermando così la propria attendibilità,  – ci tiene a sottolineare il pm Lombardo, ricordando quel fondamentale vertice con i siciliani, durante il quale alle ‘ndrine è stato proposto di partecipare alla strategia stragista –sono indice del rapporto fra un predestinato a un ruolo di comando e quello che nessuno immaginerebbe dieci anni dopo nelle vesti di collaboratore. Fiume riferisce tutta una serie di circostanze che vive in prima persona e che insieme al lavoro del Ros danno una chiave di lettura che all’epoca del capo di imputazione F18 non c’era”.

CRIMINE E CAPOCRIMINE, FATTA CHIAREZZA
SULLA STRUTTURA DELLA ‘NDRANGHETA
Elementi che uniti all’infinita serie di riscontri alle sue come alle dichiarazioni degli altri collaboratori come Carlo Mesiano, Roberto Moio, Consolato Villani e anche il controverso pentito Nino Lo Giudice, come alle innumerevoli acquisizioni collezionate dal Ros con l’attività sul campo, nel corso dell’indagine hanno permesso di spiegare e provare che “esiste una macroarea, che va da Villa San Giovanni a Pellaro, che è una sciocchezza pensare che le famiglie si occupino ognuna del proprio territorio e che al vertice di tale macroarea c’è un soggetto che ha una posizione sovraordinata a tutti gli altri”. Un soggetto che gli inquirenti hanno identificato in Giuseppe De Stefano, erede di quella carica che un tempo era stata del padre,  per decisione di chi da Don Paolino l’aveva ereditata, il suo storico braccio destro Pasquale Condello.  Un ruolo che nel suo italiano reso forse ulteriormente stentato dalla paura che ancora permane nei collaboratori – tutti – quando sono chiamati a parlare di casa De Stefano,  Fiume definisce Crimin e, cioè “colui che gestisce i soldi – riporta il pm Lombardo – e le azioni criminose, riconosciuto da tutte le cosche. È a capo di tutto per poter dirigere”, ma anche “colui che controlla tutte le strategie che riguardano una determinata fetta di territorio, cioè tutto quello che può portare soldi a livello di organizzazione”. Strategie – rivelano anni di conversazioni intercettate, come le timide rivelazioni di nuovi collaboratori come Mesiano, che parlano di “fonte” o ancora le intercettazioni valorizzate in vecchie sentenze, come quella relativa a Filiberto Maisano del ’98 o quella ancora più recente, messa agli atti del procedimento contro Angelo Gaetano Chirico, cugino di uno zio dei fratelli De Stefano – che non vengono decise dai vertici territoriali dalle singole cosche, ma da un elemento sovraordinato. Il crimine o capocrimine, il capo. Acquisizioni che permettono al pm Lombardo di fare finalmente il punto – sgombrando il campo da strumentali e forse artificiose polemiche –  sulla struttura della ‘ndrangheta.  “Una ricostruzione – afferma che ha una storia lunga, caratterizzata da numerosi passaggi, accertata da diverse indagini, alla luce della quale oggi possiamo affermare che esiste un Crimine, che è un locale temporaneo che si forma a Polsi ogni anno, che è diverso sia strutturalmente che per funzioni da quel locale del mandamento cui il crimine viene riconosciuto e dal suo capo che diventa il capocrimine di tutto il mandamento stesso che è chiamato a governare”.

RELAZIONI DETERMINANTI E PERICOLOSE
Un ruolo che nel 2001, dopo un breve interregno di Pasquale Condello, tornerà – spiega ancora Lombardo – non a caso ai De Stefano, che non a caso – tenacemente – rivendicheranno il proprio ruolo anche nei confronti di quello zio Orazio, che dopo il matrimonio con Antonietta Benestare, nipote dei Tegano, troppo accondiscendente nei confronti della famiglia acquisita. “La ‘ndrangheta che governa – sintetizza Lombardo – a Reggio è solo De Stefano, perché quando negli anni Settanta i De Stefano si sono sporcati le mani, quando si potevano permettere di fare la voce grossa con le altre organizzazioni, non è perché fossero nati predestinati, ma perché erano i più capaci, quelli che avevano intuito per primi l’evoluzione che avrebbe avuto l’organizzazione, proprio a partire da quelle relazioni che avevano iniziato a sviluppare negli anni Settanta. C’è stato qualcuno che ha avuto la capacità di capire, di sfruttare quelle relazioni e far sentire la propria voce in determinati contesto”.  E sono proprio queste relazioni e la capacita di valorizzarle l’elemento chiave che oggi permette di sgombrare il campo da banalizzazioni e verità di facciata, che hanno portato a leggere la prima guerra di ‘ndrangheta semplicemente come la ribellione di giovani leve assetate di soldi, o hanno derubricato a episodio di cronaca la presenza a Reggio del terrorista nero Pierluigi Concutelli, come quella della primula nera dell’eversione di destra, Franco Freda, la cui latitanza fu gestita dai De Stefano a Reggio Calabria.

COS’È LA ‘NDRANGHETA?
Tutti elementi che per un pm che “per lavoro unisce i puntini” – come Lombardo racconta di aver risposto a un bambino di San Luca – significano anche porsi una serie di domande fondamentali sulla natura di fondo della ‘ndrangheta, tanto per “dare la giusta collocazione agli odierni imputati, che è una collocazione di peso”, tanto per tracciare il solco delle future indagini. “Dobbiamo chiederci se la ‘ndrangheta è un esercito regolare, di soldati e generali, o un esercito irregolare, una legione straniera, in cui generali e soldati sono solo figuranti, che combattono al servizio di altri. Se è in grado di scegliere fino in fondo le proprie strategie o gode di un ambito limitato, destinato a risentire di ordini altrui. È importante chiedersi se è libera di individuare e sanzionare i propri nemici o esegue le sanzioni che altri hanno deciso. Mi piacerebbe sapere  anche se chi  si avvale delle forme di intimidazione sia più o meno responsabile di chi invece in numerose occasioni le ha trasformati in strumenti operativi destinati a  attuare strategie occulte”. Domande cui nessun procedimento ha dato – almeno pubblicamente, almeno per adesso risposta, ma che in nulla riducono le responsabilità degli odierni imputati. “Io dico solo che la ‘ndrangheta non finisce qui”. Solo servono al contrario per sfidarli – magari – a raccontare quello che sanno su  pagine ancora oscure della storia reggina e non solo, come quella seconda guerra di ‘ndrangheta, servita più da operazione di “distrazione di massa” che per assicurare equilibri, o i vecchi e nuovi depistaggi, attacchi, allontanamenti che hanno colpito inquirenti e investigatori che si sono avvicinati a realtà scomode. Ma questo – ha promesso Lombardo – sarà un altro procedimento. (0070)

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