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Processo Campolo, necessario un confronto tra gestori e giocatori

REGGIO CALABRIA I gestori delle sale giochi di Gioacchino Campolo e i giocatori che le hanno rese vere e proprie miniere per l’ex re dei videopoker, già condannato in via definitiva a sedici anni per…

Pubblicato il: 19/03/2014 – 19:11
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Processo Campolo, necessario un confronto tra gestori e giocatori

REGGIO CALABRIA I gestori delle sale giochi di Gioacchino Campolo e i giocatori che le hanno rese vere e proprie miniere per l’ex re dei videopoker, già condannato in via definitiva a sedici anni per estorsione, devono essere messi a confronto perché le loro versioni non coincidono. Una contraddizione tanto stridente da rendere auspicabile «la valutazione da parte del Tribunale della trasmissione degli atti in Procura, perché alla luce di quanto emerso qualcuno sta commettendo falsa testimonianza». È questa l`istanza presentata dalle difese – gli avvocati Giovanni De Stefano e  Giuseppe Marazzita – al termine dell’udienza al processo Campolo, che vede imputati non solo l’ex re dei videopoker e i familiari, ma anche alcuni dei dipendenti, accusati di aver reso tecnicamente possibile la costruzione di un sistema di gioco fantasma e parallelo attraverso la trasformazione di comuni videogiochi in vere e proprie “slot mangiasoldi”, totalmente sconosciute al Monopolio e allo Stato, assolutamente illegali, capaci nel giro di mezz’ora di fagocitare centinaia e centinaia di euro. Ovviamente esentasse.
Un sistema che se nelle precedenti udienze era stato ricostruito attraverso le testimonianze dei gestori delle sale, oggi è toccato a cinque ex accaniti giocatori – Clemeno, Malaspina, Moregaz e Tevere –  spiegare ai giudici. Di fronte al collegio presieduto da Natina Praticò, i cinque hanno spiegato la loro giornata-tipo di gioco, o meglio quelle poche, pochissime ore in cui, regolarmente, in alcuni casi quotidianamente riuscivano a far sparire centinaia di euro alla ricerca della combinazione perfetta che quelle macchine davano mai o quasi mai. Macchine che venivano “commutate” – questo il termine  da tutti utilizzato – su richiesta del cliente, ma è proprio su chi fosse deputato a mettere in atto la conversione di un normale videogioco in una slot mangiasoldi che le testimonianze divergono. Stando a quanto raccontato dai cinque giocatori infatti erano gli stessi gestori a intervenire sulle macchine, come ad azzerarle le poche volte che si realizzava una vincita, liquidandola immediatamente, convertendo in denaro contante i gettoni guadagnati dall’avventore. Circostanze invece negate dai gestori che hanno sempre puntato il dito contro i tecnici, oggi imputati nel processo, sostenendo che qualunque intervento sulle macchine fosse di loro esclusiva competenza. Una contraddizione palese su cui le difese hanno chiesto che i testi vengano messi a confronto e su cui il Tribunale, nonostante le perplessità del pm Rosario Ferracane che proprio per i gestori ha chiesto e ottenuto l’archiviazione nell’ottobre scorso,  si è riservato di decidere alla prossima udienza.
Gioacchino Campolo è balzato agli onori delle cronache quando la guardia di finanza si è presentata per mettere i sigilli al suo patrimonio. Un sequestro – poi diventato confisca – del valore di oltre 300 milioni di euro. In mano allo Stato sono passati il patrimonio aziendale e i relativi beni di 4 imprese, 256 immobili – 74 abitazioni, 126 locali commerciali, 56 terreni – sparsi tra Reggio Calabria e provincia, Roma, Milano, Taormina e Parigi, 3 veicoli commerciali, 6 autovetture di lusso, 5 motocicli, 27 rapporti bancari, postali, assicurativi, azioni, individuati in Italia e in territorio francese, ma soprattutto più di cento quadri tra i quali molti di rilevantissimo pregio artistico.
Sebbene Campolo debba la sua “fama” al clamore provocato del sequestro, anche prima di conquistare le prime pagine dei giornali era persona nota. O almeno lo era per inquirenti e investigatori che per anni hanno seguito l’evoluzione dei suoi rapporti con le cosche cittadine. «Dopo la pax mafiosa – si legge nel provvedimento di confisca che riassume anni e anni di indagini e procedimenti a carico dell`imprenditore – si era avvicinato anche alle famiglie Libri/Zindato e manteneva rapporti con esponenti della cosca Condello-Serraino-Imerti-Rosmini e Nicolò, in specie il capo locale di Gallico, Iannò Paolo, al quale ,aveva attrezzato un circolo con giochi legali e illegali prima del’95». Ma, chiariscono le indagini a carico dell’imprenditore, sebbene fosse in ottimi rapporti con tutti, il clan che su di lui ha da sempre steso un’ala protettrice sarebbe quello dei De Stefano.
A confermare gli elementi sulla contiguità di Campolo alla potente cosca di Archi che gli investigatori hanno collezionato nel corso di una lunga indagine, sono le dichiarazioni di quattro collaboratori di giustizia Paolo Iannò, killer della cosca Condello, Antonino Fiume e Giovanni Battista Fracapane, killer ed esponenti di spicco del clan De Stefano e più recentemente l’ex collaboratore Nino Lo Giudice.

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