Chiesta la conferma delle condanne per i soci di "Gambazza"
REGGIO CALABRIA È con una richiesta di conferma delle condanne inflitte in primo grado che si è conclusa la requisitoria del sostituto procuratore generale Ezio Arcadi al processo d’Appello abbreviat…

REGGIO CALABRIA È con una richiesta di conferma delle condanne inflitte in primo grado che si è conclusa la requisitoria del sostituto procuratore generale Ezio Arcadi al processo d’Appello abbreviato scaturito dall’operazione “Reale 5”, che ha mandato dietro le sbarre i fiancheggiatori della latitanza di Antonio Pelle “Gambazza”, il mammasantissima di San Luca arrestato a Polistena il 12 giugno 2009 e morto poco dopo nell’ospedale di Locri.
In primo grado, il gup Antonio Laganà aveva condannato 2 anni e 4 mesi Virginio e Pietro Scopelliti, accusati di inosservanza della pena, mentre due anni erano stati inflitti a Vincenzo Brognano, Francesco Albanese e Giuseppe Codispoti, gli altri tre imputati che hanno scelto il rito abbreviato e per i quali la pubblica accusa aveva chiesto 3 anni e 6 mesi.
Al centro dell’inchiesta, la rete di alleanze della cosca Pelle di San Luca, «funzionale – si leggeva nell’ordinanza dell’epoca – alla gestione dei diversificati traffici illeciti e al sostegno logistico dei latitanti, tra i cui il noto boss defunto Antonio Pelle». Nonostante la prolungata malattia, il mammasantissima per lungo tempo è riuscito a sfuggire agli investigatori, nascondendosi prima nella sua Locride – nei bunker di contrada Ricciolio, quindi a Careri, successivamente a Natile Vecchio di Careri – e poi in provincia di Cuneo. Infine, dal dicembre 2008 fino ad aprile-maggio 2009, Pelle aveva trascorso la latitanza a Santo Stefano d`Aspromonte. Un periplo ricostruito dagli inquirenti grazie alle intercettazioni, vera e propria ossessione degli uomini della cosca Pelle, tanto preoccupata dalla possibile presenza di cimici degli investigatori da aver selezionato tecnici che provvedevano a bonificare periodicamente mezzi e abitazioni, ma addirittura da sviluppare tecniche “artigianali” per sfuggire alle orecchie lunghe degli inquirenti: dialogare a voce molto bassa, inquinare le voci alzando il volume della radio o della televisione o, addirittura, non parlare. Precauzioni inutili: saranno proprio le intercettazioni a farli cadere. (0040)