Processo Archi Astrea, ritorna il "Nano"
REGGIO CALABRIA Sono passati undici mesi da quell’udienza del processo Archi Astrea che il presidente Campagna è stato costretto a rinviare perché il collaboratore tanto atteso – Nino Lo Giudice – si…

REGGIO CALABRIA Sono passati undici mesi da quell’udienza del processo Archi Astrea che il presidente Campagna è stato costretto a rinviare perché il collaboratore tanto atteso – Nino Lo Giudice – si era nel frattempo reso irreperibile. Il processo è andato avanti, il pentito sparito per mesi ha creato scompiglio con due scottanti memoriali – con cui non solo ritrattava tutto quanto in precedenza dichiarato, ma lanciava soprattutto pesanti accuse contro i magistrati che ne avevano gestito la collaborazione, l’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto Michele Prestipino, e il sostituto Beatrice Ronchi – è stato scovato, arrestato, interrogato, per poi scegliere la strategia del silenzio quando in aula è stato chiamato a deporre. Solo da poco Lo Giudice ha ricominciato a parlare. E oggi ha scelto di rispondere alle domande che il pm Giuseppe Lombardo da quasi un anno aspettava di porgli. Ma è un Lo Giudice diverso, quasi irriconoscibile. Dimenticata la logorrea degli esordi, ma senza recuperare troppo in precisione, l’ex collaboratore sembra pesare ogni singola parola. A volte il nervosismo lo tradisce, ma in generale le sue frasi sono controllate, misurate, e complice forse – o forse no – un collegamento audio non perfetto, la sua deposizione è costellata di lunghi silenzi.
PARLA LO GIUDICE
Rispondendo alle domande del pm Lombardo Lo Giudice, che si definisce un “padrino”, parla degli assetti nello strategico quartiere di santa Caterina, di Carmelo Murina, Michele Franco, Donatello Canzonieri, uomini chiave nel quartiere dopo la pax mafiosa, quando – dice – «la `ndrangheta è diventata una cosa diversa, si chiamava cosa nuova», ma le risposte – quasi svogliate – sembrano fermarsi alla superficie. «Sono nato a S. Caterina, sono nato a Arhi, sono cresciuto a Reggio» risponde, quasi per tagliare corto, al pm quando lo incalza per sapere qualcosa di più sulla fonte delle sue conoscenze su cui anche la sua famiglia – quanto meno in un certi periodo storico – aveva facoltà di parola e di gestione.
«NON UN CLAN, UNA FAMIGLIA»
«Una famiglia, non un clan – puntualizza Lo Giudice, che rispondendo agli avvocati specifica. La famiglia è stata guidata da mio padre fino al suo omicidio, io sono tornato a Reggio Calabria nel luglio del 91 e ad agosto sono stato arrestato. Chi la dirigeva dopo la morte di mio padre? eravamo tutti dentro. Io sono uscito nel 98». Ed è proprio al boss Pietro Lo Giudice – riferisce il Nano – che risalirebbero i rapporti reali e stabili con il clan Tegano. «Mio padre – sostiene – era un assiduo frequentatore di casa Tegano, di Giovanni Tegano. C’erano i Tegano, erano tutti là. Io non ho nessun contatto con loro, ma porto Giovanni Tegano nella copiata della santa, del quintino e del padrino». Circostanza che a suo dire non implica un legame particolare con il boss e il suo clan, anche se – quanto meno negli anni Ottanta – è proprio alla famiglia del Nano che sarebbe stata affidata una missione delicata. «Nel 1981 Giovanni Tegano chiese alla mia famiglia di avvicinare Angelo Frascati, perché aveva un’amicizia con un giudice del tribunale di Reggio Calabria e gli volevano chiedere di intervenire». Ma con la morte del fratello Salvatore prima, del padre Pietro Lo Giudice poi, i rapporti – afferma l’ex collaboratore – si sarebbero rapidamente raffreddati, complice anche le false accuse – la “tragedia” – alla base di quella che definisce la «finta faida» con i Geria.
GLI UOMINI DEL CLAN TEGANO
Una distanza che tuttavia non ha impedito al Nano di conoscere nome volto, ruolo e dettagli sugli uomini che all’indomani della pax inizieranno a brillare nella galassia Tegano, a partire dal reggente Paolo Schimizzi, che – riferisce l’ex collaboratore – «è scomparso, l’hanno ucciso. Il suo posto è stato preso da Franco Benestare. Conosco Crudo che è responsabile della morte di Paolo Schimizzi, conosco Carmine e Antonio Polimeni, ma non ricordo chi sia il genero di Tegano e chi di Carmelo Barbaro». E anche quest’ultimo – «un killer spietato dei Tegano», lo definisce Lo Giudice – sarebbe per il Nano una vecchia conoscenza, come non nuovi sarebbero per l’ex pentito gli uomini cresciuti sotto la sua ala, a partire dai Rechichi oggi imputati nel procedimento Archi Astrea.
«I Tegano soci di Multiservizi», Lavilla «uomini di mafia» sì, no, forse
«Sapevo – afferma rispondendo alle domande del pm Lombardo – che alla fine degli anni Novanta Rechichi aveva iniziato questa società insieme ai Tegano e a Barbaro. Sono soci sia i Tegano, sia Barbaro. Me l’ha detto Aricò nell’estate 2009, verso luglio agosto. La società – mi diceva – è mezza dei Rechichi, mezza dei Tegano. La sede è davanti a casa di Carmelo Barbaro. Mi pare si chiami Multiservizi». L’ennesima conferma di un dato processuale alla base dell’inchiesta Archia Astrea, su cui però Lo Giudice non sembra in grado di fornire dettagli ulteriori. «Aricò mi ha detto che avevano una società in comune. Non mi ha detto precisamente da quando ma mi ha fatto intendere che erano insieme fin dall’inizio». Allo stesso modo, Lo Giudice sembra conoscere la famiglia Lavilla, ma sul punto le sue parole si fanno confuse, la sua testimonianza contraddittoria. Rispondendo alle domande del pm, l’ex collaboratore afferma senza esitazione «Peppe Lavilla è stato sempre vicino ai Tegano, Giovanni Tegano è andato più volte a casa sua ad Arangea. Stiamo parlando degli anni 80. Piano piano hanno installato macchinette di bibite in tutti i posti, alla Finanza, dalla Polizia, ai Carabinieri. Neanche il dottore Cortese sapeva che erano dei Lavilla. Svolgevano attività nell’ambito dell’edilizia. Antonio Lavilla fa parte della famiglia Tegano, è stato battezzato dai Tegano. Anche suo padre. Mi è stato detto da Murina, da Giovanni Tegano, da Pasquale Condello. Condello mi diceva che erano prestanome dei Tegano per quanto riguarda l’edilizia, che facevano molti lavori a Reggio Calabria, che avevano le macchinette tanto delle slot machine tanto dei caffè». Parole che sembrano granitiche e senza appello ma che improvvisamente si sgretolano di fronte alle domande dei legali, cui Lo Giudice non esita a rispondere “non ho detto mai che i Lavilla sono uomini di mafia”. Un’affermazione in palese contraddizione con quanto in precedenza dichiarato e che toccherà al Tribunale valutare, insieme alle “rivelazioni” sull’ex talpa dei servizi Giovanni Zumbo.
ZUMBO, UOMO DEI DE STEFANO E DEI SERVIZI
Soggetto – dice Lo Giudice – con cui non avrebbe mai avuto direttamente a che fare, ma sul cui conto sarebbe stato informato. «So che è una persona vicina ai De Stefano, vicina ai Tegano, ai servizi segreti deviati, ha contatti con massoneria, con la `ndrangheta. Ha contatti con tutti. Lo so perché mi è stato riferito da qualche avvocato, da mio fratello Luciano, da Pasquale Condello. Anche Consolato Villani lo sapeva che era legato ai servizi. Lo ha saputo dai suoi parenti, dai Latella. I ficareddi – dice quasi alterato il Nano, quando il pm cerca di comprendere su quali fonti di conoscenza possa contare – sono amici suoi». Lo Giudice sembra nervoso, più volte il presidente Campagna è costretto a richiamarlo, ricordandogli i suoi doveri di testimone, che palesemente di malavoglia ammette «Si sapeva da tempo che i De Stefano avevano un aggancio dentro i servizi segreti. Zumbo era amico, confidente dell’avvocato Giorgio De Stefano. Me lo ha detto Pasquale Condello, che parlava spesso dell’avvocato De Stefano. Lo accusava anche di averlo fatto arrestare a Roma in un noto ristorante, il Fungo, e lo collegava ai servizi segreti, alla massoneria. Non mi ha spiegato come lo sapeva». Affermazioni che sembrano lasciare quanto meno perplesso il pm Lombardo, che in riferimento a quello che definisce un «episodio molto noto», non può fare a meno di ricordare all’ex collaboratore che in quel medesimo blitz è stato ar
restato anche don Paolino De Stefano, cugino dell’avvocato Giorgio. Ma Lo Giudice si trincera «Me lo ha detto Condello, ma non so come faceva a saperlo. Anzi no scusate, la sua fonte era la banda della Magliana, cui era molto legato. Pasquale Condello me ne ha parlato perché ha passato molto tempo con loro. Era un killer professionista, sparava con due pistole».
«CORTESE MI HA INDICATO L’AVVOCATO»
Il Nano è nervoso, risponde di malavoglia, quasi irritato. Ma è soprattutto quando dai legali iniziano a piovere le domande sulla sua fuga, la conseguente ritrattazione e i memoriali che ne danno conto, che perde letteralmente le staffe. Si rifiuta di rivelare alcunché di quel periodo, di rifiuta di pronunciarsi sulle pesantissime accuse lanciate, ma persino sugli attentati del 2010 di cui si era autoaccusato – forse la principale rivelazione alla base della sua collaborazione – non ha intenzione di proferire verbo. Qualche ammissione arriva però proprio sull’inizio della sua carriera di pentito. Ed è inquietante. «Il giorno dell’arresto – racconta il Nano, rispondendo alle domande dell’avvocato Gatto – sono stato portato in Questura. Ho chiesto di parlare con il dottore Cortese della Mobile e ho detto subito di voler collaborare. Lui mi disse “noi vogliamo sapere degli attentati di Reggio Calabria”. Mi disse “si accomodi nell’altro ufficio che faccio venire il dottore Pignatone e poi venga di nuovo qua”. Dopo circa venti minuti mi fa rientrare nel suo ufficio e mi dice che mi avrebbe fatto portare in carcere in regime di isolamento e domani vediamo. Mi ha dato il nome di un avvocato amico suo, l’avvocato Catanzaro del Foro di Roma, e mi dice fai la nomina a questo amico mio. Ho seguito le istruzioni che mi ha dato». Un particolare fino ad oggi mai emerso e che potrebbe diventare inquietante alla luce di quanto in seguito rivelato dal Nano. «L’avvocato Catanzaro – afferma – è venuto quando sono venuti i magistrati a interrogarmi. Si sono presentati Prestipino, Pignatone, c’era Cortese il mio avvocato. In quel primo interrogatorio era stato presente, poi non sempre. Certe volte non si presentava, è mancato parecchie volte. A volte c’era un avvocato in sostituzione, a volte non c’era nessuno». Affermazioni tutte da verificare ma che sembrano incastrarsi e intrecciarsi con quanto affermato in quei memoriali di cui oggi Lo Giudice non vuole, o meglio non vuole più, parlare. Saranno le indagini di altre Procure a stabilire cosa sia successo con la fuga del Nano, mentre toccherà ai tribunali di fronte a cui ha dichiarato pesare le affermazioni dell’ex collaboratore Lo Giudice. Ma quando il videocollegamento si chiude e Lo Giudice torna in carcere, quello che rimane sembra essere solo confusione, fango e nebbia. (0090)