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Gli sfoghi 2.0 di Ernesto Orrico

COSENZA È una rubrica giornalistica che diventa libro? Anche. Ma non solo, perché in quel caso non ci sarebbe nulla di nuovo. Piuttosto si tratta di un esperimento di scrittura che mutua i codici l…

Pubblicato il: 17/06/2014 – 11:46
Gli sfoghi 2.0 di Ernesto Orrico

COSENZA È una rubrica giornalistica che diventa libro? Anche. Ma non solo, perché in quel caso non ci sarebbe nulla di nuovo. Piuttosto si tratta di un esperimento di scrittura che mutua i codici linguistici social – frasi smozzicate degne di un tweet o di un post facebook, tanto che spesso viene automatico cercare il tasto “like” a fondo pagina –, stringhe di testo, concepite da un attore-autore-regista di teatro, di cui esiste anche una versione musicale. “The cult of fluxus” di Ernesto Orrico, 40enne cosentino, è insomma una produzione multimediale per eccellenza – dal concepimento alla fruizione –, un’opera 2.0 per gli stimoli che aziona e gli stilemi che riproduce. Eppure mette al centro la parola nella sua potenza primordiale, come vedremo.
Come e da cosa nasce il “flusso” di Orrico? Si muove dapprima su un giornale universitario (Fatti Al Cubo), poi – dopo un periodo sperimentale per un altro testo, “Speaking and Looping”, proposto live nei locali come reading con chitarra ed effetti – confluisce nella forma cd con 10 tracce (più un remix) firmate da Luigi Porto, Cristian Rosa, Marco Orrico, Francesco China Cristiano, Sergio De Luca, Raffaele Fata, Massimo Palermo, Vlad KayaDub Costabile, Gianfranco De Franco, Robert Eno e Anonima Italiana. Anche in questo caso, la liquidità della musica degli Anni Zero che non prevede titoli perché le tracce sono tutte scaricate o in formati “eterei” suggerisce un doppio registro: la successione numerica con un ammiccante cancelletto da hashtag e, per i feticisti dell’oggetto cd, anche il titolo, che però per paradosso sparisce proprio nelle 55 pagine del volumetto. Qui, i titoli sono numeri però vengono scritti per esteso, a parole insomma. Orrico si è divertito a disorientarci e a ribaltare continuamente i punti di riferimento.
Nel libro (pubblicato per i tipi di Edizioni Erranti, prefazione di Elena Giorgiana Mirabelli e postfazione di Daniela Ielasi) Orrico presenta 20 “flussi” in altrettante pagine – il singolo testo non supera mai una facciata – e vomita sfoghi più che riflessioni articolate, frasi ellittiche, molti calembour – altra figura retorica cui l’autore è dedito da ben prima che Spinoza e Lercio propalassero satira social di qualità – e reiterate allitterazioni. Sembrano riunioni a due di autocoscienza davanti a uno specchio immaginario, con l’armamentario di chi ama così tanto la parola e le sue infinite possibilità da farla esplodere e deflagrare in tutte le direzioni possibili, specchio compreso. Che spesso, infatti, si frantuma. Era la sensazione che balenava quando, qualche anno fa, aveva inaugurato una serie di video-messaggi, flussi anche quelli, affidati al web. Allora c’erano i temi politici poi frequentati in “A Calabria è morta” (2009), e adesso tornano: «C’è stato un momento in cui il conflitto pareva inevitabile» (flusso numero 7).
Ma nel 2014 l’impegno della militanza è imploso in una tendenza più intimistica ma disillusa, quasi canzonatoria: «Nella vita ci vuole cuore. Ci vuole culo. Ci vuole culto» inizia ad esempio il flusso numero 16, e dopo luoghi comuni («Nella vita ci vuole coraggio») abbattuti nel momento stesso in cui vengono citati e, naturalmente, divertissement semantici o paradossi («Memorie… piene di vuoto») ecco che tutto si tiene e si chiude con il nichilismo: «Nella vita ci vuole». Stop.
Spesso, come in questo caso e in ognuno degli altri 19 flussi, sberleffo e risata liberatoria fanno riemergere il lettore dal senso di angoscia che la scrittura sincopata – e i temi solo apparentemente leggeri e colloquiali – provoca. Orrico avrebbe potuto cedere ad espedienti “pop” come l’abolizione della punteggiatura alla Balestrini, ma avrebbe fatto uno sgarbo alla forma testuale classica per come la conosciamo e per come egli stesso dimostra di amarla, quasi rispettarla. Anche qui, un tributo alla lingua dei padri, benché piegata all’uso dell’homo technologicus. (0070)

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