REGGIO CALABRIA Conosciuto anche come “Berlusconi”, per lungo tempo nome e volto della cosiddetta Reggio bene, cui per un periodo aveva regalato – a caro prezzo, si scoprirà – la sponsorizzazione di una squadra di pallavolo femminile in serie A, Pasquale Rappoccio, l’ex patron della Medinex, non è nuovo ai guai con la legge. Sfiorato da più di un procedimento, colpito da pesanti misure di prevenzione, infine imputato nel processo “Reggio Nord”, per i magistrati non ha mai avuto remora alcuna a spartire affari e profitti con le ‘ndrine più diverse e i loro uomini. Uomini – ha scoperto il pm Giuseppe Lombardo – fra i quali c’era anche l’ambasciatore dei clan Gianluca Favara, nato sotto l’ombrello della cosca Pesce-Bellocco, ma divenuto uomo di riferimento di tutti i clan.
Rappoccio uomo di Favara
Come evidenzia il gip nell’ordinanza con cui dispone – per l’ennesima volta – il carcere per il noto imprenditore, Rappoccio sarebbe «pienamente inserito nel “sistema criminale” che ruota attorno al Favara svolge il compito di reperire a questi gli imprenditori in difficoltà economica da avvicinare ed ai quali corrispondere soldi a tassi d’usura». Nel sistema di credito parallelo istituito dai clan Condello e Pesce-Bellocco di cui Favara è il fulcro, Rappoccio – hanno scoperto gli inquirenti – ha un ruolo essenziale. È lui ad agganciare e gestire gli imprenditori Giovanni Aloisio, di Lamezia Terme, e Francesco De Vito, commerciante di abbigliamento di Tropea. E proprio quest’ultima vicenda – problematica per Favara e Rappoccio – permetterà a inquirenti e investigatori di comprendere come funzionasse il sistema. Assediato da fornitori e debitori, piantato in asso dalle banche, De Vito nel gennaio 2009 chiede e ottiene dall’ambasciatore dei clan un prestito di 100mila euro, da restituire con un interesse pari al 20%. Le condizioni sono proibitive ma De Vito, deciso a tentare di risollevare la situazione, accetta. Quei soldi però non sono di Gianluca Favara, ma delle cosche di Rosarno. Che ne pretendono la puntuale, mensile, restituzione con tutti gli interessi. «Gli sto dando i miei soldi a Rosamo… io a Rosamo gli devo dare conto di questi soldi! – dice Favara a Francesco Foti –. Sono undici mesi che gli dò soldi io, da undici mesi, perché io a questo qua gliel’ho dati a gennaio, quindi ogni venticinque, trenta e con questo di novembre del venticinque, sono undici rate che devo dare io oltre ai soldi, oltre i soldi … omissis … e a quelli, a quelli di Rosarno non gli interessa niente, lo sai come ragionano … omissis … perché a me mi sta costando ogni mese, cinquemila euro, cinquemila euro, cinquemila euro».
La violenza come metodo
Ma De Vito non ce la fa, quel prestito non lo può onorare. Per salvarsi dalla vendetta dei clan, chiede – invano – aiuto ai La Rosa, una delle famiglie di ‘ndrangheta di Tropea. È lo stesso Favara a raccontare: «Mi hanno chiamato questi di Tropea! Siamo andati a Tropea! … omissis … quando sono arrivato là … lui non sapeva che io mi sono cresciuto con quelli di Tropea … omissis … e sono rimasti male tutti! Ma di più c’è rimasto male lui». Ed è proprio alla presenza degli uomini del clan di Tropea, come di Pasquale Rappoccio – che di De Vito era “responsabile” – che Favara mostra il lato più truce e crudele dell’ambasciatore. Come lui stesso riferirà – ascoltato dagli investigatori – a Francesco Fori, con De Vito non userà mezzi termini: “gli ho detto io: vedi qua, ora prendo e ti ammazzo Francesco, … inc … io ti ammazzo! Che poi ti ammazzo e ti faccio vedere come ti ammazzo … omissis … ma a te ho tutte le possibilità per ammazzarti! Sai perché! Perché me li deve dare Pasquale Rappoccio i soldi! A te ti ammazzo, i soldi me li deve dare Pasquale Rappoccio! Perché io con Pasquale Rappoccio ho trattato … no che gli pagavo le cose se non ti conosceva». Un aspetto dell’abile «ambasciatore dei clan» che Rappoccio conosceva bene. E che – probabilmente – condivideva. Il 5 marzo 2009, è infatti alla presenza del noto imprenditore, come di Giuseppe Codispoti, che Favara commenta la selvaggia aggressione subita dal costruttore lombardo Agostino Augusto, finito in ospedale dopo il pestaggio subito dagli uomini del clan. Circostanze che avrebbero lasciato Rappoccio imperturbabile, se non per la vaga preoccupazione che qualcuno – stanco del giogo imposto – possa denunciare l’accaduto. «E non gli hai detto a Davide di farsi i cazzi suoi? – dirà infatti a Codispoti, riferendosi a uno dei dipendenti della Makeall che aveva saputo del pestaggio del principale – forse ti conviene trovalo stasera, Davide. Chiamalo e glielo dici se non glie lo hai detto chiaro … omissis … Pino repetita juvant! Senti quello che ti dico io, digli – qualunque cosa ti dicano adesso tu non hai visto un cazzo, non c’eri e non sentisti».
Obiettivo, cliniche lombarde
Ma a legare Favara e Rappoccio non era semplicemente un comune “modo” di intendere gli affari, tanto meno la condivisione dei “metodi di business”. Scrive infatti il gip Cinzia Barillà «a presente indagine, e in particolare le vicende consumate in territorio milanese, hanno dimostrato come tra il Favara e il Rappoccio vi sia una fitta rete di cointeressenze volte all’inserimento nel business delle cliniche private in Lombardia. Si consideri, invero, che Rappoccio Pasquale è soggetto ampiamente inserito nello specifico settore: è amministratore unico della “Medinex s.r.l.”, corrente in Reggio Calabria, via Provinciale Spirito Santo-Cannavò nr. 40/ A, avente per oggetto sociale il commercio all’ingrosso di apparecchi medicali e farmaceutici; inoltre, risulta avere cointeressenze anche nel Gruppo gestioni sanitarie s.r.l., corrente in Reggio Calabria, via Tenente Panella, n. 12, dedita all’ acquisto, costruzione e gestione di case di cura, ambulatori e laboratori di diagnostica, strutture sanitarie residenziali per anziani e disabili (amministratore unico); e nella A.R. Medica s.r.l., corrente in Catanzaro, via Crotone, n. 113, dedita al commercio all’ingrosso di apparecchi medi cali e farmaceutici (socio amministratore)». Per mano di Gianluca Favara, Rappoccio puntava ad entrare nel fiorente business della sanità privata e convenzionata lombarda, usando come cavallo di troia quella che un tempo era il fiore all’occhiello del costruttore Agostino Augusto, patron della Makeall spa. Una società dal patrimonio appetibile, ma soprattutto titolare di numerosi appalti come quello per la casa di degenza per bambini legata al Policlinico San Matteo di Pavia in costruzione a Costa de’ Nobili nel Pavese, per il quale la banda – con la collaborazione dell’allora sindaco di Pinerolo Po (Pv) Giuseppe Villani, oggi consigliere regionale del Pd e non indagato – avrebbe anche creato una falsa convenzione con la firma – altrettanto falsa – del presidente del San Matteo Alberto Guglielmo. O ancora come quelli relativi ad altre 4 case di cura – Orta San Giulio (Novara), Silvano d’Orba (Alessandria) Monticelli pavese e Pinerolo Po (Pavia) – tutte da costruire. Un patrimonio inestimabile, una vera e propria macchina di influenze, soldi, potere e voti. Che gli emissari delle ‘ndrine non avevano nessuna intenzione di farsi sfuggire.
La passione di Agostino Augusto
Per questo Augusto verrà prima tentato dalle promesse di soldi facili da parte di Favara, quindi strozzato, minacciato, malmenato per costringerlo a cedere l’impresa. Dopo averlo di fat
to obbligato a viaggiare fino a Reggio Calabria, per impressionarlo Favara lo inviterà a scegliere un’arma qualsiasi – colore incluso – che avrebbe voluto vedere dal vivo e che su suo ordine apparirà davanti agli occhi del terrorizzato imprenditore, che non esita un attimo nel comprendere il reale significato di quella 44 Magnum. Un messaggio di morte che percepisce ancora più chiaramente all’esito del pestaggio che lo spedisce in ospedale, come delle chiare minacce che gli uomini di Favara rivolgono ai suoi familiari quando decide di rendersi irreperibile. Un’escalation di violenza alternata alle irricevibili offerte che arrivano dall’entourage dell’ambasciatore – a Milano nelle vesti di aguzzino e broker – che ad Augusto inizialmente propone, tramite Carlo Avallone, di vendere una casa di riposo in via di realizzazione nel comune di Vigolo a Pietro Frau, con il quale esisteva già un accordo per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione e ammodernamento per 3,5 milioni, quindi gli propone di cedere a Rappoccio, a prezzo stracciato, una struttura sanitaria di sua proprietà, in fase di realizzazione, ubicata nel comune di Costa de’ Nobili (PV). «È chiaro che il Favara provvedesse ad agevolare l’ingresso nel mercato lombardo dell’imprenditore e amico Rappoccio Pasquale, in favore del quale il primo operava una interessata mediazione per l’acquisto della casa di cura: l’interesse della componente calabrese, nonostante conferme e smentite, era evidente, e mirava ovviamente alla conclusione di operazioni di compravendita a “prezzo stracciato”». Un settore di business nel quale Rappoccio poteva vantare esperienza – anche criminale, stando ai precedenti procedimenti che lo riguardano – potenzialmente esplosivo e foriero di facili e ingenti guadagni. Un affare per concludere il quale ogni mezzo – dimostrano i due – era concepibile e ammesso. (0050)
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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