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INCHINO A CASA DEL BOSS | L'avvertimento velenoso e gli amici di don Memè

«Ora cca a stamu allargandu troppu sta canzuni… cercamu undi stamu carmi tutti… sinno finisci mali per carchidunu…». («Ora questa canzone la stiamo allungando troppo. Cerchiamo di stare tutti…

Pubblicato il: 07/07/2014 – 12:24
INCHINO A CASA DEL BOSS | L'avvertimento velenoso e gli amici di don Memè

«Ora cca a stamu allargandu troppu sta canzuni… cercamu undi stamu carmi tutti… sinno finisci mali per carchidunu…». («Ora questa canzone la stiamo allungando troppo. Cerchiamo di stare tutti calmi… altrimenti per qualcuno finisce male»).
Le frasi che il giovanottone dice in faccia a Lucio Musolino la cui presenza, sul sagrato della chiesa di Oppido non è gradita soprattutto al parroco, fanno gelare il sangue a chi la ‘ndrangheta la conosce bene ed ha avuto modo di guardarla in faccia più volte e davvero.
Raggela la calma con la quale le minacce, che questo sono, vengono pronunciate. Raggela il sottile distinguo che il minacciante utilizza passando dal plurale dell’invito («tutti debbono stare calmi») al singolare delle possibili conseguenze («per qualcuno può finire male»).
Non è per dare la nostra solidarietà a Lucio Musolino che iniziamo da qui il nostro editoriale. Sarebbe poca cosa e pure scontata. Iniziamo da qui perché riteniamo che il Sindacato e l’Ordine dei giornalisti, mai come in questa occasione, debbano vigilare e chiedere vigilanza attorno alla libertà ed alla sicurezza fisica del collega Lucio Musolino che, per Il Fatto quotidiano ha realizzato un ottimo, probabilmente il migliore, servizio sui fatti accaduti ad Oppido con la Madonna portata ad omaggiare un boss dalle mani sporche di sangue che sta a casa solo per età ed acciacchi ma dovrebbe scontare una condanna all’ergastolo.
Adesso qualcuno tenta di banalizzare la gravità di quanto accade ad Oppido e cerca di dare una visione parziale rispetto a cose che invece vanno lette in un quadro d’insieme.
Quel che accade nella processione di Oppido non è disgiunto dall’ammutinamento dei detenuti in Molise e tutte e due gli episodi sono la prima risposta che la ‘ndrangheta manda a Papa Francesco, ben sapendo che la Chiesa calabrese non è affatto compatta e univoca nel fare proprio il monito del Santo Padre e la scomunica degli uomini della ‘ndrangheta.
Certo, il vescovo monsignor Milito ora assicura che vedrà di ricostruire l’accaduto e che ci saranno «provvedimenti». Noi non ci crediamo e soprattutto non crediamo alla sorpresa di monsignor Milito. Sa bene, il vescovo di Oppido, che in quella diocesi già altri e più gravi segnali si erano colti grazie all’operato di “don Memè”, storico parroco di Rosarno che non ha esitato a deporre in un tribunale della Repubblica in difesa di quei boss mafiosi che Papa Francesco ha inteso, invece, scomunicare.
Quando il caso scoppiò, monsignor Milito fece visita a don Memè e gli diede solidarietà. Davanti ai giudici, nel luglio dello scorso anno, il prete si era accomodato per dire: «Penso che Rosarno sia stato messo in una cattiva luce, non so da chi (…), è stato chiusa la sede scout per mafia, e siamo stati… siamo passati per razzisti, per cattivi contro i negri, c’è stata una serie di cose che hanno buttato fango su Rosarno e sui rosarnesi, e molti stanno pagando innocentemente penso».
Tra gli “innocenti” sotto processo don Memè colloca: «Francesco Pesce un mio amico, Domenico Varrà un gran gentiluomo e Franco Rao una brava persona». Tanto da indurre il presidente del Tribunale a chiedere: «Ma Rosarno quindi è un’isola felice ci sta facendo capire, don Ascone?».
Certo che è un’isola felice per don Memè che lì è parroco da ben trent’anni e in questi trent’anni ha visto piovere morti e dilagare corruzione. E che la Rosarno di don Memè sia un’ “isola felice” lo dimostra la devozione della famiglia Pesce che si è fatta carico di climatizzare la chiesa, probabilmente l’unica casa del Signore dove si può pregare senza sudare, grazie ai potenti condizionatori installati dagli “amici” della famiglia Pesce e della famiglia Rao.
È l’uomo che conosce la gratitudine il parroco di Rosarno, così dieci mesi dopo la sua deposizione in favore dei boss, torna a indignarsi per difendere i bravi ragazzi rosarnesi dal fango mediatico. Nel marzo scorso, infatti, la trasmissione televisiva “Le Iene” si occupa di Rosarno, dei Pesce, del porto di Gioia Tauro e della cocaina che vi transita. In questo contesto chiede il parere di don Memè. Eccolo: «Rosarno non è un paese mafioso (…) È tutto falso che il sindaco sia stato minacciato con una lettera arrivata dal carcere (…) Quello che mi tocca dire purtroppo è che quando ci sono dei sindaci di sinistra sono protetti dai giudici; quando ci sono sindaci di centrodestra non sono protetti dai giudici, anzi…».
Insomma colpa dei giornalisti e dei giudici, comunisti entrambi. Poco importa se nel frattempo l’amico Rocco Pesce incassa una condanna ad altri cinque anni per una lettera di minacce spedita dal carcere al sindaco Elisabetta Tripodi su carta intestata del Comune. Ma il meglio don Memè lo deve ancora dare, ed infatti davanti alle telecamere aggiunge: «Tanta gente a Rosarno si appoggia alla mafia per necessità. Io non ce l’ho con la mafia che purtroppo dà lavoro, ce l’ho con lo Stato che il lavoro non lo dà». Infine, riferendosi a don Ciotti, che ricordiamo è l’ispiratore e fondatore dell’associazione Libera che nella Piana di Rosarno è molto presente e si occupa di far lavorare giovani disoccupati nei terreni sequestrati ai mafiosi, don Memè afferma: «Non è un parroco, lavoro non ne ha, ha voluto prendere questa bandiera lotta alla mafia e questo lavoro. Per combattere la mafia basta essere preti, non delle guardie della polizia, questa è propaganda».
Non ci pare che questo argomentare sia in linea con l’insegnamento di Papa Francesco. Monsignor Milito però fin qui non ha battuto ciglio, probabilmente avrebbe potuto continuare a farlo anche dopo l’omaggio dei portatori della Madonna al boss Mazzagatti.
Solo che nel frattempo in quel di Cassano…

 

P.S. Per completezza di cronaca, va detto che don Memè con la sua testimonianza non ha portato grande giovamento agli “amici”: Francesco Pesce è stato condannato a 12 anni di reclusione; Franco Rao a 16 anni e altri 16 anni e quattro mesi sono stati inflitti a Domenico Varrà. Eppure in quel processo (“All Inside”) ben 21 imputati sono stati assolti, insomma questi giudici «comunisti»…

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