PALMI (RC) Un vero e proprio sistema, necessario per riutilizzare i soldi provenienti da usura ed estorsioni, che serviva a trasformare il frutto del controllo quasi asfissiante del territorio di Palmi in palazzi, negozi, rosticcerie, società, sparsi fra la Calabria e Roma, formalmente intestati a una rete di compiacenti prestanome ma che in realtà erano nell’assoluta disponibilità del clan Gallico.
È quanto ha svelato l’indagine Orso, coordinata dal pm Giovanni Musarò e dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho, che oggi ha portato all’arresto di quindici persone – ritenute affiliate o contigue al clan Gallico. Una famiglia – sottolinea il procuratore Cafiero de Raho – che nonostante sia stata oggetto di innumerevoli procedimenti, quasi sempre conclusisi con pesanti condanne all’indirizzo di capi e gregari del clan, si dimostra ancora «in grado di esercitare una diretta propensione al controllo di zone contigue al porto di Gioia Tauro». Un business infinito per i Gallico, come per gli altri clan che su quella zona esercitano la propria influenza – i Pesce e i Piromalli fra tutti – ma che, al pari delle altre attività illecite della famiglia, genera liquidità che si deve reinvestire. A occuparsene per i Gallico – hanno svelato le indagini condotte dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria e dagli uomini del Commissariato di Palmi – era Giovanni Iannino, già condannato dalla Corte d’Assise del Tribunale di Palmi, particolarmente vicino al boss Carmelo Gallico. Ed è proprio seguendo le tracce del boss, rifugiatosi in Spagna dopo un’inaspettata assoluzione in Cassazione per mettersi al riparo da nuovi provvedimenti restrittivi che puntualmente sono arrivati, che sono emerse le prime tracce del rapporto privilegiato che il boss aveva con Iannino. «L’inchiesta – riassume il dirigente del commissariato di Palmi, Fabio Catalano – ha preso il via nel 2011, quando sono iniziate le ricerche dell’allora latitante Carmelo Gallico, in seguito arrestato nel dicembre dello stesso anno». E, proprio sulla base di quegli approfondimenti, sarebbe emerso il ruolo di Iannino come «vero e proprio dominus del sistema di fittizie intestazioni organizzato dal clan». Non a caso – emerge dall’ordinanza – proprio con Iannino, il boss latitante a Barcellona manteneva un rapporto privilegiato tale da rendere l’antico prestanome «il suo punto di riferimento in Italia», con continui contatti registrati sulle due utenze spagnole dedicate con cui i due speravano di eludere le intercettazioni. Per i pm, Carmelo Gallico avrebbe dunque continuato a mantenere contatti con l’Italia e a occuparsi della gestione dei beni riconducibili alla cosca ed intestati a prestanome, grazie a personaggi come Iannino. A coadiuvarlo – emerge dall’ordinanza, come da precedenti risultanze investigative – l’avvocato Francesco Cardone, già imputato per favoreggiamento della cosca Gallico di fronte al Tribunale di Palmi. Nel tempo, Iannino avrebbe fatto da trait d’union fra il boss e il legale incaricato della vendita del patrimonio immobiliare del clan, i cui proventi – ipotizzano gli investigatori sulla base delle conversazioni intercettate – non solo venivano utilizzati per nuovi affari, ma anche trasferiti al boss in Spagna. Dall’avvocato non arrivavano solo soldi, ma anche preziose informazioni. Proprio Iannino infatti, si sarebbe fatto latore di una ‘mbasciata proveniente dal legale, il quale avrebbe vivamente sconsigliato a Gallico il rientro in Italia. Un’informazione preziosa per il boss, che proprio grazie alla soffiata sarebbe riuscito a sottrarsi all’esecuzione del fermo che di lì a poco sarebbe stato disposto nei suoi confronti. Un provvedimento di cui sarà sempre Iannino a informare il boss, assicurandogli però che qualora avesse deciso di rientrare in Italia, per lui ci sarebbe stato un rifugio sicuro. Tutti elementi che inducono il gip ad una conclusione univoca: «Iannino, in un momento di peculiare difficoltà per la cosca, e non solo per il Gallico Carmelo, forniva un apporto indispensabile all’attività del sodalizio. Non si dimentichi, infatti, che, in quel frangente, Gallico Carmelo era l’unico elemento di vertice della famiglia in libertà». Una valutazione che per l’uomo si traduce in una pesantissima contestazione di associazione mafiosa, che condivide con l’altro personaggio che gli inquirenti considerano centrale nel sistema di schermatura del patrimonio del clan, Francesco Barbera, personaggio già noto agli investigatori perché vittima di un tentato omicidio di chiaro stampo mafioso nel settembre 2013. Soggetto dal profilo decisamente più operativo, toccava a Barbera raccogliere i proventi delle estorsioni e dell’usura. Non a caso – sottolineano gli inquirenti – è a lui che, nel corso di una conversazione intercettata, Iannino dice di consegnare subito l’incasso del distributore di benzina riferibile al clan.
Barbera sarebbe dunque l’ingranaggio di un sistema che a Palmi e Roma, ha in Iannino un elemento fondamentale, ma i cui beneficiari rimangono gli uomini del clan – il boss Carmelo, insieme a Teresa e Domenico Gallico – per questo colpiti da nuova misura cautelare. Intorno a loro, una fitta rete di soggetti che pur non essendo intranei alla cosca, nel tempo si sono piegati ai voleri dei Gallico, fungendo da prestanome o prestandosi a operazioni di riciclaggio.
Alessia Candito
x
x