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Dignità e articolo 18

Non sono un esperto di diritto del lavoro – anche se nei miei sette anni di pretore mandamentale ho svolto anche le funzioni di giudice del lavoro di primo grado –, ma non posso negare di avere ascol…

Pubblicato il: 16/10/2014 – 17:08
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Non sono un esperto di diritto del lavoro – anche se nei miei sette anni di pretore mandamentale ho svolto anche le funzioni di giudice del lavoro di primo grado –, ma non posso negare di avere ascoltato con disagio, direi con malessere, l’affermazione fatta dal nostro presidente del consiglio, nel corso di un’importante impegno di partito, se- condo la quale (cito tra virgolette) «il lavoro non è un diritto, è un dovere». E subito dopo proseguire dicendo: «Non è accettabile che un imprenditore non possa licenziare chi vuole e che siano i giudici a stabilire la riassunzione di un lavoratore licenziato». Scacciata l’ipotesi del sogno, ho pensato che mai avrei potuto immaginare, e con me decine di milioni di italiani, che il leader di un partito riformatore di centrosinistra, potesse fare affermazioni del genere, mai pronunciate nell’Italia repubblicana neppure dai leader della destra liberale più intransigente. Eppure è avvenuto. I commentatori politici potranno meglio di me analizzare il significato, per me inquietante, dell’attuale passaggio politico; mi riservo il diritto di partire – come sempre – dalla mia Bibbia laica, la Costituzione, ancora in vigore, per richiamare alcuni concetti fondamentali che dovrebbero costituire il punto fermo dal quale procedere per la formulazione di ogni programma politico, soprattutto di quello di governo. L’articolo 1 apre, presentando con la mirabile sin- tesi di cui erano capaci i nostri costituenti, il volto della Repubblica: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Con il termine «democratica» si vollero indicare i caratteri fondamentali di eguaglianza e libertà senza i quali non vi è democrazia (Fanfani). L’espressione successiva vuole affermare come una vera democrazia non può non essere fon- data sul lavoro, escludendosi «il privilegio, la nobiltà ereditaria, la fatica altrui». Fu chiaro ai costituenti che il riferimento al lavoro non intendeva dare una connotazione classista alla re- pubblica (tanto che venne scartata l’originaria espressione “di lavoratori”), intendendosi «lavoro di tutti, non solo manuale, ma in ogni sua forma di espressione umana». Il concetto è richiamato all’articolo 3, secondo comma, laddove si impegna la Repubblica, a rimuovere le condizioni che impediscono «la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». In questo passaggio l’identificazione tra «lavoratori» e «cittadini» è ribadita con forza e diviene l’asse portante della nascente democrazia. Il lavoro, dunque costituisce lo status di cittadinanza repubblicana, la legittimazione piena alla condivisione di diritti e doveri, alla partecipazione alla vita pubblica. Perché ciò si realizzi è necessario che il cittadino abbia la possibilità di esercitare in concreto un’attività lavorativa. Interviene a questo scopo l’articolo 4, che con altrettanta solennità, afferma che: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove la condizioni che rendano effettivo questo diritto». Il diritto al lavoro non è solo affermato, ma ogni potere o organo della Repubblica deve promuovere le condizioni (giuridiche, economiche, sociali, culturali, sanitarie) perché esso divenga effettivo. La tutela del diritto al lavoro non era ancora sufficiente. Doveva estendersi dalla fase dell’acquisizione a quella dello svolgimento. L’intero titolo III della Costituzione è dedicato ai rapporti economici e definisce nel dettaglio le varie forme di tutela, compresa la libertà sindacale, il diritto allo sciopero, la parità tra i sessi, il lavoro minorile e così via. Per non appesantire la lettura, mi limiterò a citare il primo comma dell’articolo 35 che afferma: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni». Vuol dire che la tutela costituzionale accompagna il lavoratore anche nella fase dello svolgimento del lavoro, delle sue forme e delle sue varie tipologie. Il compito di apprestare tali tutele spetta in primo luogo al legislatore, attraverso le leggi, e ad ogni altro organo (compresa la magistratura) che quelle leggi dovrà interpretare ed applicare. Le misure di tutela debbono essere presidiate da leggi dello Stato, non già rimesse, almeno nelle linee generali, alla contrattazione privata. L’attuazione legislativa non fu rapida. Solo nel 1970, con la legge 20 maggio n. 300, venne varato lo Statuto dei lavoratori, a seguito di una laboriosa elaborazione giuridica e politica. Vi parteciparono i migliori giuslavoristi dell’epoca (primo fra tutti Gino Giugni), mentre il merito politico va attribuito al ministro del Lavoro (il socialista Giacomo Brodolini, nel governo presieduto da Aldo Moro). Altri tempi, altri uomini politici, altro slancio riformatore. Il confronto con l’attuale momento politico è impietoso ma esprime assai bene il degrado culturale, ideale e politico della nostra attuale classe dirigente. Lo Statuto, composto da 41 articoli, aveva i suoi punti di forza negli articoli 14 (libertà sindacale), 18 (reintegrazione nel posto di lavoro) e 28 (condotta antisindacale). L’articolo 18 fu quello che, tra tutti, ebbe maggiore notorietà sino a divenire terreno di battaglia ideologica e politica da almeno vent’anni a questa parte, e subì sostanziali modifiche con la legge 28 giugno 2012, n. 92 (cosiddetta legge Fornero), che tuttavia non lo snaturarono del tutto. Il presidente del con- siglio rifiuta l’idea che sia il giudice a dovere decidere circa le misure da adottare in caso di licenziamento individuale senza giusta causa. Gli sfugge che il rapporto di lavoro è regolato da un contratto, regolato dal codice civile, e che in caso di rottura unilaterale di un qualsiasi contratto, compreso quello di lavoro, si va dal giudice, come avviene in tutti i Paesi civili. Rispetto ai contratti comuni (di locazione, di appalto, di compravendita, ecc.), il contratto di lavoro si differenzia inoltre per la presenza di un fortissimo squilibrio di forza contrattuale tra i due contraenti: l’imprenditore, datore di lavoro, ha un potere assolutamente superiore a quello del lavoratore, la cui vita, il futuro della propria famiglia, dipende dalla volontà del primo. Occorre quindi che la volontà non si trasformi in arbitrio e che siano regolate per legge le conseguenze dei licenziamenti senza giusta causa, secondo il precetto della norma costituzionale che ho richiamato in precedenza.
Solo una valida causa – oggettiva – di carattere disciplinare o economico, può giustificare il sacrificio di un diritto costituzionale e questa valutazione non può che essere rimessa ad un giudice, nel contraddittorio delle parti, in un processo più breve e agile di quello ordinario (non a caso il nuovo processo del lavoro fu emanato nel 1973, sulla scia dello Statuto dei lavoratori del 1970). Oggi però affidare la soluzione delle vertenze di lavoro ai giudici, gli unici in grado di stabilire se ricorra una giusta causa di licenziamento, e, in caso positivo, ordinare un risarcimento in forma specifica, cioè la riassunzione del lavoratore, sembra rappresentare un pericolo per l’economia, la crescita, lo sviluppo del paese. Al contrario, si è trattato di un percorso riformatore che ha consentito di affermare nel mondo del lavoro criteri di legalità, di tutela della dignità del lavoratore, di sicurezza sociale diffusa. Ma si sa, quando nel mondo della politica, si parla di giudici e di Costituzione, scatta un riflesso condizionato di rigetto. Quanto ai primi, invece che essere considerati un presidio di legalità, professionalità, tutela dei soggetti deboli e delle vittime del reato, circola l’idea che si tratti di un potere da ridimensionare, mortificare, pur di affermare il “primato della politica”.
La Costituzione poi, non solo si fa a gara a stravolgerla, ma se ne ignorano i principii fondamentali, la civiltà, la cultura democratica, di cui è espressione ciascuna delle sue norme. È talmente forte il rigetto da arrivare al paradosso di non consultarla neppure per verificare quali sono i requisit i professionali richiesti a coloro che dovranno essere eletti dal Parlamento giudici della Corte costituzionale o componenti del Consiglio superiore della magistratura. Si tratterebbe di controlli rapidi e alla portata di tutti, anche in caso di procedure concluse con “frettolosità”, cioè dopo oltre una dozzina di elezioni rimaste senza esito. Quelle per giudici della Corte costituzionale sono arrivata alla sedicesima puntata e ancora non se ne scorge la conclusione. Meglio evitare scelte frettolose. Se poi la Corte, da mesi deve svolgere le sue funzioni a organico ridotto, poco importa. Farà meno danni.

 

*magistrato

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