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Sana spending review

La spesa pubblica non è più sostenibile. La prassi di tagliare in un settore per poi gonfiare altrove ha portato il Paese a raggiungere un debito pubblico di oltre 2.100 miliardi di euro. Occorre, qu…

Pubblicato il: 29/10/2014 – 11:29
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La spesa pubblica non è più sostenibile. La prassi di tagliare in un settore per poi gonfiare altrove ha portato il Paese a raggiungere un debito pubblico di oltre 2.100 miliardi di euro. Occorre, quindi, comprimere energicamente la spesa corrente. Anche la sanità dovrà fare la sua parte, garantendo 2 miliardi di risparmi – così come lascia presumere la legge di Stabilità – non appena licenziata dal governo.
Il problema è quello di capire se e come sarà possibile al Servizio sanitario nazionale sopportare una simile dieta. Un interrogativo che va affrontato senza opporre alcuna resistenza ideologica. Che la sanità, così com’è, presenta delle sacche di spreco è innegabile. La spending review va portarla a sistema e non già limitata al solo taglio degli sprechi più evidenti, che sovrabbondano, e neppure circo- scritta ai costi ministeriali. Gli acquisti di beni e servizi ampiamente diffusi rappresentano il problema più evidente, che genera sprechi miliardari. Gli affidamenti dei lavori in un regime di interminabile prorogatio sono divenuti la regola, basti pensare che in un’Azienda ospedaliera calabrese quello delle pulizie è durato addirittura 12 anni (Corte dei conti?). La stessa cosa capita con le cooperative che, di fatto, coprono tutto il fabbisogno di occupazione delle strutture pubbliche, in barba ai concorsi che ormai non si svolgono più. Anche le politiche retributive del lavoro, in termini di concessione di premialità non sempre dovute e di straordinari inammissibili (spesso causati dagli eccessivi esoneri ex legge 104/92 che hanno creato in Italia un esercito di disabili), hanno contributo a incrementare la spesa improduttiva. Non solo. L’eccessiva proliferazione di unità operative, semplici e complesse, hanno alluvionato di spesa i bilanci di Asl e Ao. Stessa conseguenza ha avuto la diffusa abitudine di retribuire gli erogatori privati accreditati oltre i budget convenuti, anche dopo il commissariamento del settore. Necessita dunque una seria rivisitazione del costo della salute, tanto da eliminarlo nella parte “sprecona” e destinarlo – nel caso di risparmi – all’incremento della qualità delle prestazioni visto che, in alcune realtà, raggiungono un livello talmente basso da generare una mobilità passiva miliardaria.
È ovvio che tutto questo non basta. Per un sistema ottimale occorre la determinazione dei costi/fabbisogni standard, nei confronti dei quali c’è tuttavia da registrare un colpevole ritardo nel definirli.
Il federalismo fiscale se attuato potrebbe costituire una metodologia vincente, sempreché siano utilizzati i migliori correttivi per la determinazione dei fabbisogni standard regionali. Dovranno pesare al riguardo gli indici di deprivazione socio-economica, utili anche per programmare e realizzare un’onesta perequazione infrastrutturale, indispensabile
per far sì che vengano eliminati quei gap – soprattutto tecnologici – patiti da talune regioni costrette a effettuare (per loro errori storici) percorsi di accertamento con le tecnologie strumentali funzionanti “a manovella” rispetto ad altre che godono di quelle di ultima generazione.
Insomma, ben venga il federalismo fiscale purché tutte le regioni siano messe in condizioni di correre partendo dallo stesso punto e di gareggiare con gli stessi mezzi. Quanto all’organizzazione vera e propria, necessiterà avere un coraggio da leoni solo che si voglia realizzare la reale sostenibilità del sistema e la concreta uniformità, pre- tesa dalla Costituzione, delle prestazioni dovute all’utenza.
Per fare questo occorreranno due riforme: una culturale e strutturale. La prima. Quella utile a mettere al riparo il sistema salutare dall’abitudine disumana consolidatasi ovunque, e a correggere l’attuale nomenclatore, che ha fatto sì che si traducessero innaturalmente: a) gli utenti, destinatari istituzionali delle prestazioni del Sistema sanitario nazionale, in clienti; b) gli erogatori privati accreditati in sostenitori; c) le strutture pubbliche in serbatoi di voti, con operatori acritici al seguito; d) i medici, soprattutto quelli “di famiglia” nel ruolo di grandi elettori e, spesso, di candidati sicuri. La seconda. Quella riguardante l’indispensabile ristrutturazione dell’attuale aziendalismo. Questa potrebbe realizzarsi, alternativamente, percorrendo due ipotesi progettuali: a) agenzificando il Servizio sanitario nazionale, attraverso un’agenzia nazionale e 21 agenzie regionali/provinciali (quest’ultime riferite a Trento e Bolzano) con ad esse preposti manager di alto profilo professionale selezionati mediante concorsi pubblici, destinati ad attuare la programmazione regionale socio-sanitaria; b prevedendo, nel caso in cui non si voglia intervenire a modifica dell’attuale disciplina gestoria, un’azienda unica regionale cui affidare i compiti oggi di competenza delle diverse Asl e Ao. Una ricetta che potrebbe, complessivamente, portare a consistenti risparmi della spesa attraverso tagli “di precisione” e a un’ottimizzazione dei costi correnti. Riassumendo, il risultato è traguardabile a condizione che: 1) si realizzino le correzioni delle anomalie consolidate nel sistema, che “sporcano” i bilanci con spese inutili e clientelari; 2) si lavori per la necessaria riforma culturale che renda i cittadini autenticamente utenti e pretendenti di un diritto costituzionale reso uniformemente esigibile; 3) si faccia una riforma strutturale di sistema, nell’uno ovvero nel- l’altro modo, ma la si faccia velocemente. Da tutto questo potrà derivare un taglio complessivo di almeno 4/5 miliardi di euro che potrebbero positivamente contribuire al bilancio della Repubblica e al migliora- mento delle prestazioni erogabili alle collettività.

 

*docente Unical

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