Clan Lo Giudice, le conferme della Cassazione
REGGIO CALABRIA È diventata definitiva la sentenza scaturita dal procedimento con rito abbreviato contro la cosca Lo Giudice, che ha visto alla sbarra Domenico Gangemi, Paolo Sesto Cortese, Giuseppe…

REGGIO CALABRIA È diventata definitiva la sentenza scaturita dal procedimento con rito abbreviato contro la cosca Lo Giudice, che ha visto alla sbarra Domenico Gangemi, Paolo Sesto Cortese, Giuseppe Perricone, Madalina Turcanu e i due collaboratori Consolato Villani e Nino Lo Giudice. La Suprema Corte ha rigettato i ricorsi presentati dalle difese e dalla Procura generale, confermando quella sentenza che il 30 ottobre dell’anno scorso aveva profondamente riformato la precedente decisione del gup.
All’epoca, a fare scalpore era stata non solo l’assoluzione – contro cui non è stato presentato ricorso – di Consolato Romolo proprietario dell’armeria in cui per i pm sarebbe stato occultato l’arsenale dei Lo Giudice, ma anche l’esclusione dell’aggravante mafiosa e la riqualificazione del reato di concorso esterno in semplice assistenza agli associati, che aveva permesso alla compagna di Luciano Lo Giudice, Madalina Turcanu di vedersi ridurre la pena dai sette anni e quattro mesi rimediati in primo grado, ai 2 anni e duemila euro di multa con pena sospesa incassati in appello. Sostanziali riduzioni però erano arrivate anche per Giuseppe Perricone, la cui pena era passata dai cinque anni rimediati in primo grado, ai 2 anni e 4 mesi disposti dai giudici dell’Appello, come per Paolo Sesto Cortese, condannato in appello a 3 anni di reclusione, in luogo dei 5 anni e 4 mesi disposti dal gup. Infine, caduta l’aggravante del riciclaggio di proventi di attività mafiosa, anche Domenico Gangemi, accusato di essere l’armiere dei Lo Giudice, un anno fa si è visto ridurre la pena a otto anni di detenzione, in luogo dei dieci inflittigli dal gup. Condanne oggi divenute definitive, al pari di quelle rimediate dai collaboratori Lo Giudice e Villani, condannati rispettivamente a nove e otto anni di carcere.
Una sentenza che aveva fatto discutere, anche perché arrivata quando il pentito Lo Giudice – da latitante – aveva fatto pervenire due esplosivi memoriali – acquisiti agli atti del procedimento, ma in seguito ritenuti poco attendibili – che in alcuni passaggi affrontavano proprio alcune delle accuse alla base del procedimento che si è svolto in abbreviato. «Le armi acquistate in Austria (e che la Ronchi mi informò che forse mi stavo sbagliando sulla provenienza, suggerendomi che tali armi erano state acquistate a Reggio Emilia) – sottolineava il Nano in quelle carte – all’acquisto di tali armi non era presente mio fratello Luciano, né servivano a me, ma erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia». Ma Lo Giudice spiegava anche: «È vero che ci sono stati tanti passaggi, ma è vero anche che il suocero di mio fratello Luciano era possessore di porto e detenzione di armi, anche lui cacciatore, non è vero che tali armi potessero servire ad un’eventuale guerra, questa affermazione sostenuta in dibattimento è stata solo una mia bugia».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it