Non piegare la testa
È fame, vizio o delinquenza pura? L’altro giorno un giovanottone bussa al portone di un mio vicino di casa. «Professore scusi, mi può prestare 60 euro perché ho dimenticato il portafogli nella casa d…
È fame, vizio o delinquenza pura? L’altro giorno un giovanottone bussa al portone di un mio vicino di casa. «Professore scusi, mi può prestare 60 euro perché ho dimenticato il portafogli nella casa della mia fidanzata, che abita accanto e lei è già uscita? Appena torna, le restituirò i soldi prestati». Il professore, che non aveva mai visto il ragazzo e che non si era lasciato convincere dal suo atteggiamento, ha chiamato il padrone di casa che aveva affittato la casa dove abitava la ragazza e lo informa dell’accaduto. Non fa in tempo a parlare che il ragazzo si dilegua per le scale. Inutile dire che per eccesso di zelo, il professore ha parlato con la ragazza, appena tornata, le ha raccontato il fatto e lei è caduta dalle nuvole. La prontezza di riflessi del professore, sempre in gamba, ha fatto fuggire il ragazzo e, almeno per quel giorno – si spera – abbia desistito dai suoi propositi estorsivi, ai danni di gente perbene. Se poi, quanto accaduto, gli è servito da lezione, tanto di guadagnato per lui e la società. Dubito, però. Anche perché si è sentita la necessità di creare a Cosenza – l’isola felice di un tempo – un’associazione antiracket, presenti gli indispensabili garanti, tra prefetti, magistrati, forze dell’ordine. E quando, in un incontro istituzionale di buon livello, si è cominciato a sentir parlare di colpi di pistola, di intimidazioni, di vessazioni e, dopo poco tempo di sparatorie con morti e feriti, allora ecco che Cosenza si è svegliata sempre di più, dopo aver fatto per lungo tempo come le tre scimmiette: io non vedo, non sento, non parlo. E così finivano sotto il piombo di spietati killer uomini e imprenditori coraggiosi, come Mario Dodaro, Lucio Ferrami, Cataldo De Iudicibus. Imprenditori che si sono rifiutati di piegarsi allo strapotere mafioso che pretendeva la mazzetta, senza colpo ferire, pena la morte. Con loro se si parla di strapotere della mafia, occorre ricordare Giannino Losardo e il direttore del carcere Sergio Cosmai che, per non aver piegato la schiena, sono stati barbaramente uccisi. Ed ecco che al seminario arcivescovile di Cosenza-Rende, presenti il giovane presidente della neo costituita associazione antiracket, “Mani Libere”, Alfio Cassano, con a fianco il fondatore-ideatore delle associazioni antiracket,Tano Grasso, hanno parlato di tentativo di riscatto, se non di rinascita. Un contributo al risveglio delle coscienze cosentine per affrancare la Calabria della Sila e del Pollino, è venuto da Maria Teresa Morano. E grazie a lei che Cosenza ha messo in piedi, senza timore e tentennamenti, un’associazione contro coloro che vivono del lavoro degli altri, che prefiggono di estorcere danaro alla gente onesta e perbene. E hanno dato dimostrazione del loro impegno antimafia, dopo aver deposto davanti ai magistrati, tra cui il procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo, il pubblico ministero di Cosenza, Antonio Tridico. Il commissario nazionale antiracket, Santi Giuffré e il prefetto Gianfranco Tomao, da par loro, hanno plaudito alla nascita del sodalizio che è stato intitolato a Lucio Ferrami. Un uomo tutto d’un pezzo che, a parte familiari, congiunti e amici, hanno dimenticato in molti. Eppure Lucio Ferrami – ne abbiamo parlato anche al liceo Telesio di Cosenza con il circolo della stampa “Maria Rosaria Sessa” che presiedo, presente Arcangelo Badolati – non ha tentennato a denunciare quanti si erano avvicinati a lui per chiedergli il pagamento del pizzo. Questo, però, gli è costato la vita perché i sicari non hanno esitato, nel 1981, a sparargli mentre a bordo della sua auto tornava a casa assieme alla moglie Maria Avolio. Anzi, Ferrami le fece da scudo col suo corpo per salvarla. E lei, Maria Avolio, pur a distanza di trenta e più anni, non ha avuto timore alcuno a raccontare i particolari di quella triste e barbara vicenda che l’aveva privata del marito che «mai, mai – ha detto – si sarebbe piegato alle cosche, finanche a costo della vita». E cosi è stato. La signora Ferrami ha proseguito il lavoro del marito, ma in splendida solitudine. Trentatré anni fa non c’era la capacità della denuncia. Anzi. E Maria Avolio non ha esitato a dire che ha dovuto attendere un trentennio prima di ricevere un modesto, ma significativo, riconoscimento per l’impegno del marito, e poi suo, in favore della legalità.
In occasioni come queste vien fuori il senso e l’orgoglio dell’appartenenza a un gruppo di persone che non vogliono vivere piegando la testa. Il voler fare gruppo perché «uniti si può vincere», lottare insieme dà la possibilità di sconfiggere e isolare i criminali che infestano questa regione e non solo, facendo in modo che ad essere additato sia tutta intera una regione, che pur tra i tanti difetti, non ha quello di essere una popolazione mafiosa. Certo il girarsi dall’altra parte fa il gioco dei criminali mafiosi, la paura non aiuta a vivere come si dovrebbe. Gli stessi politici dovrebbero sentirsi più incoraggiati a fare per intero il loro dovere e pensare di più all’interesse della comunità che sono stati chiamati a rappresentare e far crescere. Non ci può essere più la resa incondizionata alle cosche, ma la reazione come quella piccola – ma assai significativa – del professore che, con la scusa di chiamare il proprietario della casa, ha fatto fuggire chi gli voleva estorcere sessanta euro. Certo ci vuole un po’ di coraggio. È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. Lo ha detto Zapata, lo ha gridato, col suo gesto, Lucio Ferrami.
*giornalista