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Minacce a Lombardo, prende corpo la pista interna

REGGIO CALABRIA A più di due settimane da quella telefonata arrivata al comando provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Calabria con cui è stato annunciato un nuovo attentato in preparazione p…

Pubblicato il: 03/12/2014 – 18:17
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Minacce a Lombardo, prende corpo la pista interna

REGGIO CALABRIA A più di due settimane da quella telefonata arrivata al comando provinciale della Guardia di Finanza di Reggio Calabria con cui è stato annunciato un nuovo attentato in preparazione per il pm Giuseppe Lombardo, emergono nuovi elementi sul messaggio di morte che il misterioso telefonista ha voluto lasciare. Elementi inquietanti – oggi al vaglio della Dda di Catanzaro che sull’episodio ha aperto un fascicolo – perché rivelano che qualcuno sta seguendo il pm da molto vicino. Non solo ne ha studiato e ne conosce le poche abitudini che la vita blindata gli concede, orari e strade abitualmente percorse, ma soprattutto sa con preoccupante grado di certezza che tipo di attività il sostituto procuratore sta conducendo, quali approfondimenti ha ordinato, su cosa sta indagando. E lo ha voluto fare sapere a chi ha ricevuto le sue promesse di morte. È così che inquirenti e investigatori hanno interpretato il fatto – assolutamente non casuale, si mormora in ambienti investigativi – che quella telefonata di minacce sia arrivata di domenica, a cavallo fra due delicatissime e – almeno formalmente – riservatissime attività d’indagine. Attività di cui chi ha chiamato sembrava essere a conoscenza.
Un particolare inquietante, che fin dall’inizio ha spinto gli investigatori a cercare la possibile origine delle minacce non solo nei ranghi della criminalità organizzata e fra gli uomini dei clan, negli anni duramente colpiti dalle inchieste del pm Lombardo, ma anche all’interno della macchina stessa dello Stato. Un’ipotesi che fa tremare i polsi, al pari dello scenario che si va componendo. Secondo le ipotesi oggi in circolazione, le indagini che il sostituto della Dda reggina sta conducendo sono così pericolose per uno o più soggetti, da spingere qualcuno – tanto potente e tanto in alto da poter avere accesso per via diretta o indiretta anche alle informazioni più riservate – ad arrivare ad esporsi con una telefonata di minacce.
Un evento che ha destato preoccupazione dentro e fuori la Procura e attorno a cui oggi ruotano diversi interrogativi: qual era il reale obiettivo? Spaventare il pm o chi della sua sicurezza è responsabile, tanto da ipotizzare un allontanamento dall’indagine? Aumentare la tensione per far saltare i nervi al pm in un momento delicatissimo a livello investigativo o un reale programma di eliminazione? Quesiti delicati, che in ogni caso compongono un quadro reso – se possibile – ancor più lugubre da un altro dettaglio di quella telefonata che non è sfuggito agli investigatori più lucidi ed esperti, che nei giorni successivi hanno ascoltato più e più volte quel messaggio.
«Ditegli al giudice Lombardo». Chi ha chiamato, si è riferito al pm utilizzando un’espressione desueta, quasi arcaica. Un’espressione da vecchio codice, quando prima della riforma del codice penale era il giudice istruttore – come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – a turbare i sonni dei mafiosi, perché era lui ad incaricarsi delle indagini. Ed è proprio l’eco siciliana di quelle stragi – si mormora in procura – che quel termine avrebbe voluto evocare, ma soprattutto è la mai chiarita ipotesi di responsabilità di pezzi di Stato nell’omicidio dei due giudici che qualcuno avrebbe voluto sottolineare. O almeno, queste sono le ipotesi che circolano e che hanno portato – se possibile – a un’ulteriore blindatura attorno alle indagini che la Dda sta portando avanti.
Indagini cruciali – come di recente affermato in pubblica udienza anche dai pm nisseni che rappresentano l’accusa al processo bis sulla strage di Capaci – e allo stato riservate, ma che già in passato sono state violate. La telefonata di morte arrivata all’indirizzo del pm Lombardo non è infatti che l’ultimo di una serie di episodi che hanno rivelato la presenza di un’abile, puntuale, sempre informata ombra che, periodicamente, vuole far sentire la propria presenza. Vicina, molto vicina. È successo con la polvere da sparo recapitata al pm Lombardo circa un anno fa, con il proiettile di kalashnikov fatto pervenire ai magistrati De Bernardo e Mollace, come per l’inquietante violazione dell’archivio atti relativi, avvenuta proprio alla vigilia dell’insediamento del procuratore Federico Cafiero De Raho e rimasta ancora senza risposte. All’epoca, qualcuno non si è neanche preoccupato di nascondere le tracce della violazione della stanza in cui all’epoca erano custodite le piste d’indagine potenzialmente più pericolose e non ancora sviluppate dalla procura reggina. Quello violato da una mano ancora anonima era infatti l’archivio dell’ex procuratore capo, Giuseppe Pignatone, sulla cui scrivania sono passati accertamenti, intercettazioni preventive, informative riservate, acquisizioni preliminari ma ugualmente importanti, che sotto forma degli ormai noti “modelli 45” – i fascicoli riservati ai fatti non contenenti notizie di reato ovvero non ascrivibili a “noti” – sono in parte diventate la pietra angolare di inchieste imponenti, in parte sono finite in archivio, in attesa di futuri riscontri che dessero loro gambe o di nuovi occhi che le valorizzassero. Atti a cui qualcuno si è abusivamente procurato accesso.
Circostanza che si è prestata all’epoca a diverse domande e interpretazioni: chi è entrato sapeva cosa cercare? Ha sottratto qualcosa o ha adulterato il contenuto di atti e fascicoli? Quell’effrazione è stato solo un tentativo maldestro o la necessità di costruire un alibi qualora in futuro fosse emersa la sparizione o adulterazione di un fascicolo? Quesiti allo stato rimasti senza risposta, ma che partono tutti da un presupposto univoco: chi è stato in grado di violare quell’archivio, chi sta lavorando contro la procura, è a qualche titolo vicino alla procura stessa. Ed è proprio a partire da questa inquietante prossimità – elemento comune anche alle intimidazioni e agli attacchi che la procura e i suoi uomini hanno subìto – che gli inquirenti oggi stanno cercando di individuare quel tumore che dall’interno stesso delle istituzioni sembra voler indebolire la Procura, le sue indagini, i suoi uomini.

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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