«Preziose» le "soffiate" del Nano
REGGIO CALABRIA Si è pentito, poi si è pentito di essersi pentito e si è dato alla macchia per mesi, rompendo il lungo silenzio solo con due scottanti memoriali con cui ha ritrattato quanto in preced…

REGGIO CALABRIA Si è pentito, poi si è pentito di essersi pentito e si è dato alla macchia per mesi, rompendo il lungo silenzio solo con due scottanti memoriali con cui ha ritrattato quanto in precedenza dichiarato, confermati come propri quando è stato riacciuffato e interrogato, per poi inabissarsi nel più completo silenzio, ma per il Tribunale di Reggio Calabria presieduto da Silvana Capone le dichiarazioni di Nino Lo Giudice rimangono «propalazioni preziose» e pienamente attendibili. O almeno così vengono definite nelle corpose motivazioni depositate a sostegno della sentenza con cui oltre cinque mesi fa il tribunale di Reggio presieduto dal giudice Silvana Capone ha condannato a lunghe pene detentive Luciano Lo Giudice e gli imputati del procedimento Do ut des. Pietra angolare dell’intero procedimento, le dichiarazioni del collaboratore erano state da lui stesso smentite in due pesantissimi memoriali con cui il Nano aveva bollato come fandonie tutte le sue precedenti dichiarazioni tanto sulla sua famiglia come sulle bombe del 2010 a Reggio Calabria, aveva dichiarato di essere stato indotto a collaborare, lanciando pesantissime accuse contro l’ex dirigente della Mobie, Renato Cortese, come contro la «cricca di magistrati» – così l’aveva definita – che ne avevano gestito e a suo dire drogato la collaborazione.
Nonostante i giudici riconoscano «la valenza di ritrattazione del contenuto dei due memoriali» il pesantissimo contenuto di quei due documenti non sarebbe «in grado di incrinare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Lo Giudice Antonino». Per i giudici infatti «non può ignorarsi che il collaboratore, come sopra già esposto, non ha inteso spiegare personalmente né a questo Tribunale, né alle parti presenti in aula all’udienza del 17 dicembre 2013, i motivi e le circostanze dell’improvvisa sparizione, trincerandosi dietro l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere, e ciò contrariamente al contegno che lo aveva invece animato durante le plurime udienze». Un comportamento che per il collegio presieduto da Silvana Capone «non ha pertanto consentito alle parti ed al Tribunale di accertare in maniera diretta i motivi della sua sparizione». Tuttavia – si legge in sentenza – il silenzio del pentito sarebbe in contraddizione sia con gli interrogatori resi agli inquirenti dopo il suo arresto, sia con le dichiarazioni del figlio Giuseppe, contattato da un Lo Giudice estremamente turbato e in preda alla paura prima di darsi alla macchia. Il figlio del Nano ha raccontato che il pentito – quasi terrorizzato – gli avrebbe raccomandato di stare attento soprattutto a carabinieri e forze dell’ordine. Un consiglio quanto meno curioso, chiarito dallo stesso Lo Giudice dopo il suo arresto, quando agli inquirenti che lo hanno interrogato ha fatto intendere di riferirsi ad appartenenti alla criminalità organizzata travisati da uomini delle forze dell’ordine, sottolineando però che all’origine dello stato di terrore che lo aveva indotto a fuggire ci sarebbe stato l’interrogatorio con il sostituto della Dna, Gianfranco Donadio, e – sintetizza il Tribunale – «le accuse mosse – o meglio insufflate – in quella sede nei confronti di Aiello Giovanni e tale Antonella», ma soprattutto che di queste venisse a conoscenza il cugino del Nano, il pentito Consolato Villani. Al riguardo, i giudici si astengono da una valutazione, ma sembrano anzi voler sottolineare che «non è dato al giudicante sapere la reale pericolosità degli eventi raccontati dal collaboratore agli inquirenti» tuttavia concludono che «ciò che invece può desumersi, in base ad un ragionamento di tipo logico inferenziale, è che il collaboratore abbia avvertito un pericolo reale. D’altra parte, qualora avesse voluto solo recidere il rapporto di collaborazione con l’A.G. e ritrattare, che bisogno avrebbe avuto di inventarsi questa sorta di condizionamenti e coartazione del suo volere? Quale ritrattazione meno credibile rispetto a quella descritta come non spontanea ma frutto di una coartazione psicologica così forte? E già, perché l’intimidazione del collaboratore era all’origine del suo allontanamento dal luogo in cui era sottoposto al programma di protezione, ed all’inizio del periodo in cui egli avrebbe scritto i due memoriali».
Nonostante su quei memoriali e sulla scomparsa del Nano diverse procure abbiano fascicoli ancora aperti, il tribunale si spinge ad affermare che «la circostanza che ancora all’udienza il collaboratore non abbia voluto rispondere direttamente alle domande sui fatti più recenti della sua collaborazione è fortemente sintomatica del permanere della causa del timore ancora a distanza di mesi da quanto il collaboratore era evaso, e del fatto che essa sia perdurata in tutto il periodo in cui i memoriali contenenti la ritrattazione sono stati scritti». Per questo, concludono i giudici, «deve pertanto concludersi che la scelta di Lo Giudice Antonino di non collaborare più con l’autorità giudiziaria non risponde ad un percorso interiore spontaneo ed inverso a quello che lo aveva portato alle dichiarazioni accusatorie, ma sia stato indotto o forzato, pur non potendosi affermare da chi e da che cosa».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it