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Magistrati sotto attacco

È di qualche giorno fa la notizia di un possibile attentato in danno del sostituto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, per la preparazione del quale sarebbero pronti per l’uso ben duecen…

Pubblicato il: 11/12/2014 – 10:37
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È di qualche giorno fa la notizia di un possibile attentato in danno del sostituto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, per la preparazione del quale sarebbero pronti per l’uso ben duecento chili di esplosivo. La notizia non è nuova, perché numerosi sono stati da alcuni anni a questa parte i segnali, gli annunci, le minacce nei confronti del magistrato reggino. Quello che più colpisce, leggendo la notizia, è la singolare coincidenza con minacce e annunci di analogo tenore nei confronti del sostituto della Dda di Palermo, Nino Di Matteo, così come analoghe sono alcune delle modalità di esecuzione dell’attentato. Anche in quel caso si parla infatti della disponibilità di un’ ingente quantità di esplosivo, di una decisione già assunta dai vertici di Cosa nostra, a partire dal latitante Matteo Messina Denaro, come lo stesso Riina, nei suoi dialoghi con il co-detenuto Alberto Lorusso lascia chiaramente intendere. In un caso e nell’altro gli annunci anonimi sembrano trovare riscontro da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, da voci che circolano in ambiente carcerario, da altri segnali di vario genere. Un altro dato comune è rappresentato dalla circostanza che entrambi questi magistrati si stanno occupando – ognuno nel proprio ufficio – di procedimenti particolarmente complessi, che tentano di fare luce su aspetti oscuri della nostra storia nazionale, a partire dagli anni di piombo sino alle stragi del ’92-’93, e, ancora, ai giorni nostri. Non si tratta, come appare evidente, dei consueti processi di criminalità organizzata, che hanno ad oggetto questa o quella cosca, le loro tipiche attività di estorsione, di riciclaggio, di traffico di droga, di infiltrazione nelle pubbliche amministrazioni. Non sono i processi che si occupano del presente quelli che suscitano preoccupazione negli ambienti più alti delle mafie (gli unici nei quali possono essere concepiti progetti stragisti di questo genere), ma i processi che, muovendo dall’esame delle vicende passate, tentano di dare un’interpretazione del presente, che ne rappresenta la naturale derivazione, in ambito criminale, economico e politico. Di Matteo si occupa in questo momento del processo sulla trattativa Stato-mafia, a Caltanissetta si tenta di ricostruire responsabilità a livello di esecutori e mandanti della strage di via D’Amelio (dopo il depistaggio organizzato attraverso l’inquinata collaborazione di Scarantino), ma anche la sua ragione effettiva nel contesto della trattativa avviata subito dopo la strage di Capaci e portata avanti per oltre un anno, lungo tutto il 1993. Lombardo, dal canto suo, si occupa di quello che egli stesso ama definire il piano più alto della torta nuziale (immagine metaforica della struttura apicale della ‘ndrangheta), vale a dire degli “sposi” che troneggiano in alto. Si tratta della componente “invisibile”, ma non per questo classificabile come concorrente esterna dell’organizzazione. Si tratta anzi dell’effettivo vertice, in grado di interloquire con i rappresentanti dei poteri forti, occulti o meno, a qualsiasi livello, nazionale ed internazionale. Estraneo alle tradizionali “doti”, ai rituali battesimali e alle ormai note gerarchie di carattere territoriale, dovendosi occupare di affari che ruotano su cinque continenti, come dice uno dei protagonisti del romanzo di Gianfrancesco Turano, “Contrada Armacà”. Il contesto comune va ricercato nel ruolo di logge massoniche, settori dei servizi di sicurezza, interessi economici internazionali, insomma il medesimo scenario prospettato davanti alla commissione parlamentare Antimafia da Leonardo Messina, nella sua lunga e ormai nota audizione del dicembre del 1992.
Detto questo, non è possibile scartare altre, ancora più inquietanti ipotesi. I messaggi intimidatori diretti a magistrati, ormai da qualche anno si vanno intensificando in ogni parte d’Italia, provengono per la maggior parte dall’interno del circuito carcerario, a volte sono affidati ad improbabili personaggi di scarsa attendibilità, altre volte sono diffusi con messaggi murali, lettere anonime, invio di proiettili e altro ancora. C’è la sensazione, insomma, che si voglia preparare il terreno a un nuovo grande “botto”, ad una strage, diretta apparentemente a colpire questo o quel magistrato per le indagini da lui condotte in quel momento, ma in realtà necessaria, nell’attuale contingenza politica, a far cambiare ancora una volta il corso delle cose, e determinare una reazione unitaria e necessitata di governo nazionale. È di tutta evidenza che una tale esigenza non sarebbe riconducibile alle mafie che, al momento, non hanno alcun interesse a suscitare una nuova fase di dura repressione nei loro confronti, nuove severe misure legislative di rigore, un’ondata di provvedimenti di regime carcerario differenziato ai sensi dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nuove condanne all’ergastolo per gli esecutori, dal momento che la fase esecutiva delle stragi sarebbe comunque delegata alle organizzazioni mafiose del territorio. Si tratta di un’esigenza di tipo schiettamente politico ed economico, sollecitata, tra l’altro, dalla crisi economica destinata a mordere ancora per anni, con i suoi devastanti effetti, quali crescita della disoccupazione, del disagio sociale, possibili proteste di piazza, anche violente, crescente disaffezione dalla politica, dai partiti, e le possibili derive autoritarie che sono sin d’ora all’orizzonte in Italia e in Europa. Stupisce e sconcerta, se questo scenario ha una qualche attendibilità, la sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica, ma molto di più quella delle istituzioni e dei responsabili di governo, rispetto alle minacce di cui si parlava in apertura. C’è insomma il rischio di un’ennesima sottovalutazione del rischio, della banalizzazione delle vicende, il tutto in un contesto nel quale la magistratura nel suo complesso è al centro di un sistematico progetto di ristrutturazione, di ridimensionamento, di limitazione della sua autonomia e indipendenza, in nome del primato della politica e dell’esigenza della governabilità del Paese. Poco importa se per conseguire tale risultato si comprimono diritti fondamentali del mondo del lavoro (vedasi la sostanziale abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), si ripropone in termini più severi la responsabilità civile dei magistrati, ancora indiretta, certo, ma attraverso ricorsi non più sottoposti ad alcun filtro, con le conseguenze che sono state più volte segnalate nei precedenti interventi. Un clima di insofferenza e di rivalsa, che circola non solo nei tradizionali ambienti ipergarantisti (ma solo verso ricchi e potenti di turno), ma anche in ambienti che sino a qualche anno fa trovavano conveniente, per motivi di bassa convenienza politica, condurre battaglie giustizialiste, alle quali peraltro la magistratura non ha mai dato adesione. Fatte le consuete e ridottissime eccezioni.

*magistrato

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