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Perito infedele, due anni e quattro mesi di carcere

REGGIO CALABRIA Due anni e quattro mesi di carcere per i due episodi di calunnia contestati, ma con l’esclusione dell’aggravante mafiosa. Accontenta solo a metà la pubblica accusa la sentenza con cui…

Pubblicato il: 12/02/2015 – 20:18
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Perito infedele, due anni e quattro mesi di carcere

REGGIO CALABRIA Due anni e quattro mesi di carcere per i due episodi di calunnia contestati, ma con l’esclusione dell’aggravante mafiosa. Accontenta solo a metà la pubblica accusa la sentenza con cui il Tribunale presieduto dal giudice Matteo Fiorentini ha condannato Daniele Schinardi, il perito finito alla sbarra per aver accusato gli investigatori di aver falsato le prove a carico di Domenico Demetrio Praticò, imputato nel procedimento “Piccolo carro” all’esito del quale è stato condannato a 15 anni e 8 mesi di carcere.
Per la Procura infatti «Schinardi incolpava il maresciallo capo Antonio Nucera pur sapendolo innocente con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare la cosca Ficara-Latella». Stando a quanto ricostruito dai pm Musarò e Amerio nella richiesta di rinvio a giudizio, nella propria relazione tecnica il consulente ha accusato Nucera di «aver manipolato il cd rom contente i tabulati telefonici in uso a Praticò Demetrio, in tal modo attestando il falso in un atto destinato a provare la verità e introducendo nel processo prove false a carico di Praticò (…) e di aver occultato i file relativi a tabulati telefonici acquisiti, omettendo di consegnarli alla difesa di Praticò, che ne aveva fatto richiesta».
Nonostante l’artefatta perizia di Schinardi tesa a scagionare il proprio cliente, il procedimento “Piccolo carro” ha riconosciuto il coinvolgimento di Praticò nella “tragedia” organizzata il 21 gennaio del 2010, quando una Fiat Marea carica di armi ed esplosivi inutilizzabili viene rinvenuta sulla strada che avrebbe dovuto percorrere l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una messinscena di cui Praticò, come elemento di peso del clan, sarebbe stato a conoscenza, nonostante abbia tentato di negare il proprio coinvolgimento anche attraverso la perizia e la testimonianza del consulente. Un reato che per il pm sarebbe maturato in due occasioni, il giorno del deposito della perizia di parte redatta da Schinardi, e quello della sua deposizione in aula al processo, ma «entrambe tese alla realizzazione di un medesimo disegno cioè screditare l’operato della polizia giudiziaria».
Nella sua consulenza prima, e nell’esame dibattimentale al processo poi, il consulente aveva tentato di smontare attraverso un procedimento empirico di sua elaborazione, fatto di «esame dei dati e rilevazione delle frequenze sul terreno» che lo hanno portato a puntare il dito contro il Ros, affermando prima nella propria relazione, quindi in aula: «Ci sono tutti i valori per poter dichiarare la non veridicità dei file consegnati; abbiamo appurato che i file consegnati risultano essere errati o artefatti […] non dando la possibilità di mettere tasselli importanti allo sviluppo della verità».
Ma sotto il fuoco di fila delle domande del pm, era stato lo stesso Schinardi a dover ammettere che il suo metodo «non possiede alcuna scientificità» e che lui stesso non è in possesso le competenze né tecniche, né investigative, per poter desumere un potenziale percorso dall’esame – non sempre corretto – di un tabulato.
Ammissioni che all’epoca non lo hanno salvato dalla reprimenda in aula del pm Giovanni Musarò, né gli hanno evitato il procedimento che oggi gli è costato la condanna.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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