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Un presidente garante

Il nuovo anno si apre con l’elezione del 12° presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Chi lo ha conosciuto sa bene le sue qualità di giurista, uomo delle istituzioni, giudice costituzionale …

Pubblicato il: 12/02/2015 – 15:57

Il nuovo anno si apre con l’elezione del 12° presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Chi lo ha conosciuto sa bene le sue qualità di giurista, uomo delle istituzioni, giudice costituzionale ed esponente antimafia, (quando ancora la parola non costituiva la bandierina utile per facili quanto effimere carriere giornalistiche, politiche e istituzionali). Non interessa in questa sede il percorso politico che ha condotto alla votazione di Mattarella a larga maggioranza; quale che sia stato, ha sicuramente portato alla soluzione migliore in rapporto al contesto politico e parlamentare di questa legislatura.
La premessa è necessaria in un momento nel quale le inaugurazioni dell’anno giudiziario, sia in sede centrale che in quelle distrettuali, hanno stimolato ancora una volta le consuete polemiche del mondo politico nei confronti dei vertici della magistratura italiana. Un dato è da sottolineare: quest’anno, più che negli altri anni, si è registrata una perfetta sintonia nelle relazioni dei presidenti e negli interventi dei procuratori generali e non perché vi sia stata una preventiva intesa o una concorde difesa corporativa degli interessi della “casta” giudiziaria”, ma perché era in qualche modo scontata la preoccupazione circa lo stato delle riforme in materia di giustizia civile e penale, a confronto con la drammatica situazione del Paese, nel quale criminalità mafiosa e terroristica costituiscono una minaccia sempre più pericolosa per le sorti della democrazia e della società civile. Nei mesi precedenti infatti è caduta definitivamente l’illusione che le organizzazioni mafiose operanti nel nostro paese fossero in crisi, a seguito dei colpi inferti dall’azione repressiva di corpi di polizia e magistratura e delle misure personali e patrimoniali emesse.
Al contrario, dopo le cronache del “sacco” di Roma, ad opera di una mafia dal volto inedito, ma non per questo priva delle caratteristiche di ogni altra organizzazione mafiosa “storica”, si sono registrate importanti iniziative giudiziarie nei confronti della ‘ndrangheta in Lombardia, Abruzzo, Umbria e, da ultimo, Emilia Romagna. Altre misure riguardano anche camorra e cosa nostra, ma di spessore decisamente minore e comunque quasi solo all’interno dei territori di appartenenza di ciascuna di esse. Non è un caso che il presidente della Corte d’appello del distretto di Milano abbia solennemente dichiarato che in Lombardia non si può più parlare di infiltrazione mafiosa, ma di vera e propria occupazione, terminologia che ho sempre usato nei miei numerosi interventi pubblici sul tema, anche quando, ufficialmente, era più prudente usare tortuosi giri di parole piuttosto che pronunciare parole di verità e di denunzia. Né per caso la ‘ndrangheta assume il carattere di “mafia nazionale” se non di “mafia italiana internazionale”, tanto diffusa è la sua presenza in Italia e all’estero, tanto invasiva è la sua penetrazione nel tessuto economico e politico del paese, tanto illimitate sono le risorse finanziarie di cui dispone. Risulta sconcertante che l’attenzione dei responsabili di governo si sia appuntata su singole frasi, espunte dal contesto, dell’intervento dell’ottimo procuratore generale di Torino, per polemizzare genericamente contro tutta la magistratura italiana, invece di esprimere seria preoccupazione per l’occupazione denunciata unanimemente in tutti i distretti giudiziari del Paese, anche in quelli tradizionalmente ritenuti immuni da contaminazioni di presenze mafiose.
È naturale protestare quando si sente dire a gran voce che il problema è rappresentato dalla neghittosità dei magistrati, accentuata dal lungo periodo di ferie di cui godono, ignorando le statistiche ufficiali che pongono i magistrati italiani al primo posto in Europa in termini assoluti (il primo posto, in verità, apparterrebbe ai magistrati russi, ma solo in termini assoluti e per motivi collegati all’estensione di quello sconfinato territorio) e in percentuale per numero di sentenze emesse in sede civile e penale e per numero di sopravvenienze annuali di nuovi procedimenti. Ho già avuto modo di ricordare che persino il numero dei procedimenti è poco significativo dal momento che nel nostro Paese, per ogni processo vengono redatte decine di sentenze e ordinanze, mentre negli altri Paesi, la maggior parte dei processi si conclude col giudizio di primo grado e i provvedimenti emessi non richiedono motivazioni della complessità di quelli redatti dai giudici italiani.
Non parliamo poi delle carenze del personale amministrativo: è lo stesso ministro della Giustizia a dover riconoscere che ben ottomila sono i posti scoperti negli organici degli uffici giudiziari e che le misure adottate consentiranno di coprirne 1.300 circa, il che viene presentato come un ottimo risultato. Il fatto è che si parla molto di riforme del settore giustizia, per precisare subito dopo che dovranno essere a costo zero e che anche questo settore non dovrà sfuggire ai tagli di bilancio imposto a tutte le pubbliche amministrazioni. Nessun commento invece è stato riservato alla comune constatazione che l’Italia non è la patria del diritto, né delle ferie, ma della mafia, della corruzione, dell’illegalità dilagante. Eppure questo avrebbe dovuto essere l’argomento principale del giorno dopo: quali rimedi adottare, con urgenza e determinazione, per combattere questi tre enormi problemi che gravano sulla nostra economia, la società civile, la democrazia. E non per proporre misure abborracciate, spesso peggiori di quelle che vengono sostituite, per la presenza di condizioni e limitazioni che servono a neutralizzare gli effetti positivi annunciati. Mi riferisco alla riforma del voto di scambio, che invece di favorire ed estendere l’applicazione di tale ipotesi di reato, l’ha resa assai difficile da configurare in concreto, forse addirittura impossibile. Analogamente, in materia di autoriciclaggio, l’art. 3 della legge 15 dicembre 2014, n. 186, nell’introdurre l’art. 648-ter 1, condiziona la punibilità delle operazioni di trasferimento e occultamento dei proventi da attività illecite, solo quando siano poste in essere «in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
Quello che doveva essere un reato di pericolo viene modificato in reato di danno, con la curiosa contraddizione di richiedere che l’ostacolo sia concreto, cioè che abbia reso impossibile l’identificazione della provenienza delittuosa, e dunque, se detta provenienza è stata individuata e sia stata raggiunta la prova della responsabilità dell’indagato, il reato… non sarebbe più punibile! Altra norma a rischio è quella, ancora non varata, del decreto legislativo in attuazione della legge delega sulla riforma fiscale, laddove pone come condizione di punibilità della frode fiscale, un tetto pari al 3% dell’imponibile totale, con ciò favorendo i grandi evasori rispetto alla massa dei contribuenti.
Il tema sul quale tutti i capi degli uffici d’Italia si sono soffermati maggiormente è stato sicuramente quello della “riforma delle riforme”: la prescrizione.
L’istituto della prescrizione così come regolato in Italia è un unicum nel panorama legislativo penale del mondo. È stato stravolto nel suo significato originario, secondo alcuni a diritto dell’imputato (!), in nome della ragionevole durata del processo. (art. 111 cost). Al contrario, la prescrizione è il peggior nemico della ragionevole durata del processo, perché segna il fallimento della giustizia.
La prevedibile, irragionevole, estinzione del processo è talmente ampia da costituire una vera e propria depenalizzazione non dichiarata per via parlamentare, ma rimessa alla giurisdizione, con il conseguente trasferimento di responsabilità da addebitare alla neghittosità dei magistrati. La giustizia è così condannata a girare a vuoto per produrre centinaia di migliaia di fascicoli processuali, utili solo a trasformare intere foreste in carta da macero, spreco di risorse umane, tecniche, economiche. La depenalizzazione strisciante investe un’ampia tipologia di reati, che vanno dall
e violazioni edilizie, ai reati ambientali, alle lesioni e agli omicidi colposi, evasioni fiscali, falsi in bilancio, abusi di ufficio, persino corruzione e reati fallimentari. Questo produce un vero e proprio status di impunità per intere categorie di imputati (in buona parte appartenenti alle classi dirigenti del Paese). La giurisdizione viene così mortificata al ruolo di garante di una legalità giudiziaria che non ha nulla a che vedere con la legalità legislativa e tanto meno con la legalità effettiva del paese.
L’illegalità sistemica viene in tal modo a comporre, insieme alla presenza strutturale delle mafie, la costituzione materiale, la normalità italiana.
Il nostro Paese, è l’unico in Europa nel quale il rispetto della legalità non è la precondizione condivisa dalle forze politiche, senza condizioni, senza se e senza ma, al contrario, costituisce oggetto di dibattito tra le forze politiche per stabilire il livello di legalità sostenibile nell’attuale costituzione materiale, le soglie di illegalità compatibili. Se poi la giurisdizione prova ad andare oltre il livello di legalità sostenibile, si producono fibrillazioni e tensioni, che fanno gridare allo scontro insanabile tra politica e magistratura, che danno luogo o a norme mitigatrici, di vario genere, veri condoni non dichiarati, o a tentativi di riduzione degli spazi di autonomia e indipendenza della magistratura, in nome del “primato della politica”. Nessuno dei capi degli Uffici giudiziari distrettuali ha richiesto inasprimenti delle pene o restrizioni delle garanzie della difesa e delle libertà dei cittadini, non solo per rispetto alla Costituzione, ma per l’inutilità del facile ricorso a tali espedienti, come dimostrato dall’esperienza di questi anni. Molto meglio aumentare l’efficienza della giustizia, creare le condizioni normative e organizzative
per ridurre i tempi dei processi civili e penali. Molto si è fatto per il processo civile, nulla, sinora, per quello penale.
Questo, in sintesi, è il motivo per il quale la stragrande maggioranza dei magistrati italiani ritiene che il nuovo presidente della Repubblica possa essere il garante effettivo della nostra Costituzione, della legalità, della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, di un diverso e migliore rapporto tra le istituzioni, con particolare riguardo all’autonomia e all’indipen- denza della magistratura, sinora comodo parafulmine di tutte le disfunzioni e le lentezze di una macchina giudiziaria, impoverita sistematicamente di uomini e mezzi.

 

*Magistrato

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