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Voto di scambio alle provinciali del 2009, la Procura ricorre in Cassazione

CATANZARO Ricorso in Cassazione contro una sentenza della Corte d’appello di Catanzaro. L’ha presentata la Procura generale della Repubblica – vergata dal sostituto procuratore generale Eugenio Facci…

Pubblicato il: 18/06/2015 – 21:16
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Voto di scambio alle provinciali del 2009, la Procura ricorre in Cassazione

CATANZARO Ricorso in Cassazione contro una sentenza della Corte d’appello di Catanzaro. L’ha presentata la Procura generale della Repubblica – vergata dal sostituto procuratore generale Eugenio Facciolla – dopo aver letto le motivazioni del Tribunale che rigettavano la richiesta d’appello contro Gianluca Marino, ex assessore della provincia di Crotone in quota Pdl, assolto dall’accusa di voto scambio politico-mafioso ad aprile 2013. Nei suoi confronti il sostituto procuratore della Dda Pier Paolo Bruni aveva chiesto una condanna a quattro anni di reclusione ma la Corte decise per l’assoluzione e condannò Marino a un anno e quattro mesi per violazione delle legge elettorale, esclusa l’aggravante mafiosa. Rispetto a tale decisione il pubblico ministero propose il ricorso in appello che venne rigettato con la motivazione secondo cui «non è contestato che l’imputato Marino abbia versato somme di denaro a Cava e Morabito (coimputati in primo grado, ndr) per “procacciare voti” nelle elezioni provinciali di Crotone nel 2009». Si legge inoltre che «Non sussiste alcuna connotazione mafiosa mafiosa nei fatti: 1) perché non è provata l’organica appartenenza di Cava e Morabito al clan Vrenna; 2) perché la condotta partecipativa non può consistere nell’attività di procacciamento voti quand’anche posta in essere per il tramite o in concorso con soggetti contigui al sodalizio; 3) perché non emerge che il procacciamento di voti sia andato a vantaggio dell’associazione né che l’abbia rafforzata o sia stato attuato con metodo mafioso; 4) perché l’assenza di prova di condizionamento del voto connesso alla forza di intimidazione impedisce di configurare l’aggravante dell’articolo 7 perché il pm appellante avrebbe frainteso l’intercettazione della conversazione in cui Vrenna e Morabito alludono a soggetti da ammorbidire, a “famiglie”, a espressioni “… che paiono rimandare a forme di costrizione”». Il procuratore ha, però, deciso di impugnare la sentenza e ricorrere in Cassazione.

 

LE RAGIONI DEL RICORSO
Secondo la Procura generale, la Corte d’appello non tiene conto del procedimento effettuato con rito abbreviato la cui sentenza ha acclarato la responsabilità, anche per l’associazione mafiosa, «quali esponenti della cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura degli imputati Vrenna Antonio e Iembo Carmelo, i quali sono stati i principali artefici del procacciamento dei voti a favore dei candidati Zurlo (Stanislao, ex presidente della provincia, ndr) e Marino e sono stati altresì i beneficiari delle somme di denaro erogate dall’imputato Gianluca Marino quale corrispettivo per il procacciamento dei voti in occasione della campagna elettorale per le elezioni provinciali dell’anno 2009».
Secondo quanto riportato nel ricorso, la Corte d’appello non tiene in considerazione il risultato di tale processo che si fonda anche sull’interrogatorio dello stesso Gianluca Marino effettuato il 21 gennaio 2011, nel corso del quale lo stesso riferì dell’impegno di Cava a condurre la campagna elettorale per Marino e Zurlo. «Il Cava – dichiarò Marino – ebbe anche a informarmi che aveva contattato Antonio Vrenna, figlio di Giuseppe Vrenna affinché si impegnasse anche il Vrenna Antonio per la campagna elettorale a favore di Zurlo. Il Cava ebbe anche a riferirmi che il Vrenna si sarebbe impegnato a procacciare voti a favore di Zurlo presso gli zingari di Crotone, in quanto legato da rapporti di parentela con alcuni appartenenti al gruppo rom. Sono ben a conoscenza del fatto che Vrenna Antonio è figlio di Vrenna Giuseppe, che notoriamente a Crotone rivestiva il ruolo di capo dell’omonima cosca».
Secondo i magistrati, inoltre, dalle intercettazioni telefoniche nel corso dello spoglio dei voti emergeva chiaramente «un notevole interesse da parte della cosca Vrenna rispetto alle sorti della campagna elettorale sia del Marino sia dello Zurlo». Inoltre lo stesso Marino, nel corso dell’interrogatorio, scrive il pm, dimostra di avere promesso ai Vrenna una somma pari a 4000 euro «a fronte di una probabile richiesta più cospicua da parte dei vertici della cosca Vrenna per il procacciamento dei voti». Inoltre, non vi sarebbe nessun fraintendimento sulle intercettazioni. Le espressioni “ammorbidire”… “devi insistere su quella cosa che mo sono costretti”, “mano a mano lo portiamo dalle famiglie”… “oi compà se non pressiamo oggi, domani si sono finiti, mo dobbiamo pressare”, sono «eloquenti affermazioni» che «lette in uno con tutte le emergenze acquisite avrebbero dovuto portare la Corte a ritenere dimostrato il metodo mafioso con cui la cosca a procacciato i voti». Nel ricorso si sottolinea che «la mancata valorizzazione da parte del Tribunale delle intercettazioni ha riportato una valutazione incompleta dei rapporti esistenti tra il Marino e i vertici cosca […]». Ma, soprattutto, la Corte non tiene conto della sentenza in abbreviato che condanna i Vrenna, riassunta nelle considerazioni del Gup di Catanzaro il quale, invece, considera probanti le intercettazioni che secondo la Corte il pm avrebbe frainteso. A queste motivazioni si aggiungono le dichiarazioni del pentito Vincenzo Marino che testimoniano della vicinanza di Gianluca Marino alla cosca Vrenna «e che questi si sarebbe prestato chiedendo alla cosca di fare campagna elettorale».
Spetterà ora agli ermellini stabilire se accogliere o meno le ragioni dell’accusa.

 


Alessia Truzzolillo
redazione@corrierecal.it

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