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La scure del gup sul clan Caridi-Borghetto-Zindato

REGGIO CALABRIA Sono pene pesantissime quelle decise dal gup di Reggio Calabria Amodeo per gli imputati del procedimento con rito abbreviato “Cripto”, scaturito dall’indagine che ha inferto un nuov…

Pubblicato il: 07/01/2016 – 17:30
La scure del gup sul clan Caridi-Borghetto-Zindato

REGGIO CALABRIA Sono pene pesantissime quelle decise dal gup di Reggio Calabria Amodeo per gli imputati del procedimento con rito abbreviato “Cripto”, scaturito dall’indagine che ha inferto un nuovo duro colpo al clan Caridi-Borghetto-Zindato, facendo saltare la cinghia di trasmissione fra i detenuti in carcere e uomini e donne del clan ancora in libertà. Diciotto anni sono andati a Francesco Zindato mentre è di 13 anni e 4 mesi la pena inferta a Gaetano Andrea Zindato.
Dovranno invece scontare 12 anni di carcere Eugenio Borghetto, Paolo Latella, Domanico Antonio Laurendi e Francesco Laurendi, mentre è di 10 anni e 8 mesi più 16mila euro di multa la condanna decisa per Alessandro Iannì e Massimiliano Polimeni. Il gup ha inoltre condannato a 10 anni Domenico Barbaro e Domenico Varano, mentre dovranno scontare 8 anni di carcere Rosa Maria Buzzan e Carmela Maria Nava. Sono stati infine tutti condannati a 6 anni Domenico Bullace, Giuseppe Laurendi, Biagio Parisi e Cosimo Pennestrì, mentre è stato decretato il non luogo a procedere perché giudicato in altro procedimento per Natale Cuzzola.
Secondo quanto emerso dall’indagine, erano tutti a vario titolo coinvolti nel sistema mutualistico messo in piedi dal clan per garantire il mantenimento dei detenuti in carcere. Un sistema gestito con pugno di ferro da Melina Nava, madre dei fratelli Checco e Andrea Zindato, considerati tuttora figure apicali del clan nonostante le lunghe condanne anche di recente rimediate, e scoperto dagli investigatori grazie alle improvvide chiacchierate di Domenico Antonio Laurendi, responsabile per il clan della gestione dei pagamenti mensili ai familiari degli affiliati e per lungo tempo intercettato dalle cimici della Mobile.
Ascoltandolo, investigatori e inquirenti sono riusciti a ricostruire gli equilibri esistenti e a individuare i «veri e propri accordi – si leggeva nell’ordinanza – con cui stabilire chi è l’incaricato di consegnare il denaro e chi, invece è deputato a riceverlo, rivelando come le somme di denaro utilizzate per il sostentamento dei detenuti vengano procurate attraverso la consumazione di altri delitti quali il traffico di stupefacenti o reati contro il patrimonio». Un sistema rodato che, anche quando si inceppa, è in grado di attivare procedure e interventi necessari per rimetterlo in marcia. È quanto succede ad esempio quando uno dei sodali, Biagio Parisi, decide di trattenere la quota destinata ai familiari di un uomo del clan, Domenico Ventura. Uno sgarro per cui Domenico Laurendi, tramite i familiari, chiederà l’intervento diretto di Melina Nava, cui dopo l’arresto dei figli è toccato tenere strette le redini del clan. È lei infatti a venire informata di dissidi e controversie, puntualmente riferite al figlio Checco,come a riportare le direttive che da questi vengono impartite durante i colloqui. Un meccanismo emerso da centinaia di conversazioni intercettate, sulla base delle quali gli inquirenti ipotizzano che proprio dai massimi vertici del clan sia arrivato il via libera all’escalation di intimidazioni – una testa d’agnello in macchina, l’auto data alle fiamme, minacce verbali e fisiche – cui Parisi è stato sottoposto per riportarlo «sulla retta via».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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