Il galateo dei De Stefano e la dittatura del consenso
REGGIO CALABRIA C’è una grammatica nelle intimidazioni. Non tutte sono uguali e non tutte hanno lo stesso significato. «Scoppiare la macchina e bruciarla sono due cose distinte, lo ripeto…

REGGIO CALABRIA C’è una grammatica nelle intimidazioni. Non tutte sono uguali e non tutte hanno lo stesso significato. «Scoppiare la macchina e bruciarla sono due cose distinte, lo ripeto. (..) Se io ti faccio scoppiare la macchina vuol dire che la prossima volta sei morto. O tu o qualcuno della tua famiglia». A spiegarlo è il pentito Enrico De Rosa, che al pm Musolino che lo interroga spiega quanto negli anni di frequentazione con i De Stefano Tegano ha ascoltato e appreso. Figlio della buona borghesia reggina ma avvicinatosi per scelta al mondo dei clan, De Rosa fra gli arcoti era diventato “di casa”. Per questo, anche di fronte a lui – mette a verbale di fronte al pm – Vincenzo Zappia, uomo di Peppe De Stefano, non ha esitato a “consigliare” a un interlocutore «pure che lo spariamo noi gli facciamo un favore perche non serve niente, gli dobbiamo sparare i figli così si prende … almeno soffre, perché lui di se stesso non soffre».
Un esempio, emerso dai verbali messi agli atti del procedimento “Il padrino”, che De Rosa fa «per farvi capire che c’era tutto un “modus operandi” che non era una fantasia, che poi magari le situazioni sono cambiate e, comunque sia, la famiglia, intesa come famiglia De Stefano, erano più votati ad arrivare con il ragionamento alle cose». Pur senza rinunciare all’uso della forza e della minaccia che il loro stesso casato evoca, per De Rosa i De Stefano non avevano bisogno di usare le maniere forti. «Erano cosl bravi, per dire, ad accattivarsi le persone».
Tanto Giovanni De Stefano, come Mico Tattoo Sonsogno si mischiavano con la “creme” di Reggio Calabria, «la penetravano … e diventavano un tutt’uno con il tessuto sociale, una cosa assurda». D’altra parte, continua il pentito, non hanno mai incontrato alcun tipo di resistenza. «La gente si ammazza per frequentare … per essere amici loro, per vivere come loro, per fare qualcosa per loro». E non si tratta – sottolinea più volte De Rosa – di figli di ‘ndrangheta, ma della cosiddetta Reggio bene, che per gli uomini del casato di Archi sembra provare rispetto e ammirazione. «Dall’inizio del corso fino alla fine – aggiunge il pentito per spiegare l’ampiezza del fenomeno- «conoscono le persone … di ogni attività, se dico una cazzata … non dico una cazzata… ogni attività è collegata per dire, o ha buoni rapporti di amicizia o sennò non apre». E nessuno – emerge dalle dichiarazioni di De Rosa – si è mai sognato di dire di no agli arcoti. Proprio per questo, forse, De Rosa – pur estremamente determinato a proseguire nel suo percorso di collaborazione, anche solo per poter strappare i suoi figli da Reggio Calabria – arriva ad una riflessione amara che confessa al pm Musolino. «Prima pensavo, mentre ero in macchina, e riflettevo: “ma io voglio dare una mano per tutto quello che faccio, come cambiamento mio personale, ma secondo me lui…” quando dicevo “lui” mi riferivo a voi – dice al sostituto procuratore della Dda reggina – “la può scalfire, ma non la distruggerà mai”». Perché – afferma il pentito – «anche i ragazzi di ora non capiscono un c…o, anziché andare avanti, andiamo indietro».
Per De Rosa, nonostante i punti segnati, le sconfitte inflitte, sul lungo periodo la lotta con la ‘ndrangheta non si può vincere. Ma non perché sia troppo potente. Ma perché ha troppo consenso. Toccherà alle indagini, ai processi e alla stessa Reggio Calabria dimostrare che non è così.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it