I suoni ipnotici del "Teatro degli orrori"
REGGIO CALABRIA Testi ruvidi su un tappeto di suoni graffiante e ipnotico. Ritratti al vetriolo del Paese reale prendono forma su corde, pelli e tasti di una band forgiata dai palchi e che di fronte…

REGGIO CALABRIA Testi ruvidi su un tappeto di suoni graffiante e ipnotico. Ritratti al vetriolo del Paese reale prendono forma su corde, pelli e tasti di una band forgiata dai palchi e che di fronte ad un pubblico si esalta ed esalta. C’è la voce – teatrale- di Capovilla, la chitarra inquieta di Gionata Mirai e quella altrettanto ispirata di Marcello Batelli, il basso autorevole di Giulio Ragno Favero, la batteria quasi impensabile di Francesco Valente e le tastiere oniriche di Kole Laca. Ma non contano per sé. Le individualità tecniche dei singoli – e qui sta la potenza della band- si sciolgono in un sound rabbioso, potente, elettrico che invade testa e corpo e lì rimane, a decantare. È su quel substrato – difficile da dimenticare – che il racconto amaro dell’oggi riverbera e mette radici. Nell’Italia del dilagante analfabetismo funzionale, è la musica a permettere di inoculare messaggi che i più non vogliono compresi. Ed è il frontman Pierpaolo Capovilla a dar loro forma e parole che scavano dentro. Istrionico, spudorato, senza filtri Capovilla canta o recita cartoline di un’Italia che frana su se stessa, corrompendo nel suo declino rapporti, relazioni, strutture. È il ritratto furioso di un paese che non vuole cambiare e si accartoccia compiaciuto sulle sue debolezze, quello che emerge dai concerti del “Teatro degli Orrori”, band veneziana tornata tra Calabria e Sicilia, a tre mesi di distanza dal primo tour di presentazione del loro quarto e ultimo disco. Il Corriere della Calabria li ha incontrati al Retronouveau di Messina, dove la band è approdata dopo la tappa al Teatro auditorium dell’Università della Calabria.
Il vostro ultimo album è stato definito un “disco politico” e tu stesso in una serie di interviste non hai respinto la definizione. Che significato ha e cosa aspira ad essere un disco del genere nell’Italia del 2016?
«Io credo nella canzone come portatrice di contenuto e riflessione, e mai e poi mai come fenomeno di evasione e intrattenimento. Per come la vedo io, una canzone deve spingere chi l’ascolta a precipitare nella realtà in cui vive, per poterla osservare con più attenzione, ma anche e soprattutto per potersi emancipare dalle circostanze sociali in cui sono costrette le nostre esistenze. Sono altresì da sempre conquistato dall’idea che la canzone possa contribuire al mutamento dell’immaginario collettivo, e con esso ad una rinascita della coscienza civile, nel segno del progresso e dei valori democratici. Lo è sempre stata. Forse in molti ce ne siamo dimenticati, visto lo stupore che spesso colgo intorno a me di fronte a questo tema che francamente mi sembra ovvio. Meglio ancora, mi sembra ineludibile, se con la musica vogliamo fare cultura, e non costume»
Nel 1974 Pasolini scriveva che «io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere». Credi che questo “mestiere” per come Pasolini lo intendeva possa essere indossato e attualizzato da una band o in generale da un artista?
«Credo che anche l’arte possa legittimamente ergersi a manifestazione di critica sociale. Critica nel senso più profondo e filosofico del termine: individuazione dei limiti storici dentro i quali viviamo. Una volta scorti, visti, individuati, possiamo incominciare a sperare di superarli, quei maledetti limiti. Ma non evocherei la figura di Pasolini, il suo essere intellettuale eminentemente politico, capace di sfidare tanto i poteri politico-economici quanto i pregiudizi e la sottocultura fascista e cattolico-conservatrice dell’Italia del secondo Novecento. Io non mi sento nei panni di un intellettuale, piuttosto in quelli di un autore di canzoni, che cerca intorno a sé, nel suo percorso culturale, l’aiuto degli intellettuali, per non scrivere canzoni senza meta narrativa».

Da intellettuale nel 1913 Majakovskij scrive che «il partito è una mano che ha milioni di dita strette in un unico pugno», in “Lettera al Pd” i peggiori epigoni di quella tradizione vengono ritratti per quel che sono «un qualunquista qualunque, un baciapile, un voltagabbana, un doppiogiochista, altro che boy scout». Secondo te, cosa è successo nel rapporto fra intellettuale e potere in quest’ultimo secolo?
«Il potere, in Italia e non solo, ha sempre detestato e detesta coloro che lo criticano, ma soprattutto non tollera il socialismo, l’idea di una società più uguale e più giusta, dove l’umanesimo sia centrale nell’organizzazione sociale, ed il profitto periferico, perseguendo un’idea di progresso che non coincide affatto con quella di sviluppo. Questo Pasolini, inascoltato, incompreso e spesso irriso, lo diceva con grande chiarezza. Ma ciò che sta accadendo oggi ha dell’incredibile».
A cosa ti riferisci?
«Un ceto politico “nuovo”, posturalmente giovanilistico ma culturalmente insufficiente e inadeguato, con il sotterfugio e l’inganno si è impadronito di ciò che resta della tradizione progressista nella politica italiana, e ha trasformato (ma la trasformazione è ancora in corso, e temo ne vedremo delle belle) il Partito democratico, erede del Pci di Berlinguer, in un partito di destra liberista, avulso dai suoi stessi valori fondativi. Lo ha fatto e lo fa nel segno di un’adesione acritica ad una contemporaneità inconsistente, raccontandoci un giorno sì e l’altro pure che il Novecento è la preistoria, che i suoi intellettuali altro non sono che ferri vecchi e arrugginiti che inceppano l’ingranaggio dello sviluppo, che lo sviluppo è il progresso, che destra e sinistra non esistono più, e via discorrendo. Una pantomima inaccettabile di luoghi comuni ad uso e consumo dei media e del loro linguaggio, il cui obiettivo è la manipolazione delle coscienze dei più giovani e l’esercizio del potere in quanto tale. Per capirci, Renzi sta al Pd come Craxi stette al Psi. Ecco, io, da ex militante del Pd, non potevo non scrivere quella canzone, perché ne ho francamente abbastanza di questi personaggi. La loro mancata dedizione ai valori della democrazia e della costituzione è la manifestazione più macroscopica della nostra indifferenza nei confronti del nostro stesso destino».

A quale compito dovrebbe assolvere oggi un artista per definirsi tale?
«Majakovskij diceva che l’arte non è la descrizione della realtà, ma lo scalpello dello scultore che rifà il mondo da capo. Aderisco con convinzione alla sua massima. Lo so che è assurda, oggigiorno, ma ci credo lo stesso».
Quanto è difficile raccontare oggi una realtà in cui molto rimane puramente a livello epidermico? Chi pensi o speri ti possa ascoltare?
«È sempre più difficile, lo ammetto. Così spesso ho la sensazione che siano rimasti in pochi, troppo pochi, a saper leggere il sotto-testo di una canzone. Ci si ferma al significante, nudo e crudo, nell’incapacità di scorgere dietro esso un significato, un’allegoria, una metafora. Ma, ed è un “ma” grande come una casa, il pubblico che viene ai concerti de “Il Teatro degli Orrori” mi fa ben sperare. Quando vedo giovani e meno giovani intenti ad ascoltare e vivere un nostro concerto in prima persona, con le lacrime agli occhi o co
n palpabile commozione, con la rabbia e l’entusiasmo dell’hard-core dei tempi che furono, con quella gioia e quel sentimento di comunione di intenti che così spesso si manifestano durante i nostri concerti, allora mi dico… Non tutto è perduto. Anzi».
Eppure oggi sembra che l’allontanamento – anche forzato e chimico dalla realtà – sembra essere sempre più diffuso, se non favorito. Credi sia espressione di una degenerazione diffusa di singoli o piuttosto una strategia di repressione sociale?
«Il commercio e l’uso e l’abuso di psicofarmaci è diventato epidemico, e l’industria farmacologica è una lobby potente e determinata nel raggiungere i suoi scopi. L’ideologia psichiatrica e la pratica medica della psichiatria vanno a braccetto con essa, diffondendo nella società italiana l’idea che la sofferenza esistenziale e il disagio sociale siano, in un modo o nell’altro, espressioni di malattie psichiche da curare con l’uso degli psicofarmaci. Posso scorgere, in questo fenomeno, una strategia della repressione, ma ciò che vedo con più chiarezza è semplicemente Big Pharma, i suoi amministratori delegati, i suoi azionisti».
Ti sei personalmente impegnato nella campagna “slegalo subito”, contro la contenzione psichiatrica. Come mai hai deciso di sposare questa battaglia?
«Perché è una battaglia sacrosanta, ed è un tema che riguarda la qualità della democrazia nel nostro paese, ovvero la vita di noi tutte e tutti. La pratica della contenzione meccanica nei Spdc, nelle Rems, ma anche in molte strutture ospedaliere che ospitano gli anziani o i disabili, è uno scandalo che deve finire, al più presto. La contenzione meccanica non è quasi mai necessaria. Viene praticata per motivi che non hanno niente a che vedere con il diritto del paziente alla salute e alla cura. Queste cose non le dico io, ma medici e psichiatri, psicologi e psicoterapeuti che lottano contro il loro stesso sistema professionale, per garantire un’applicazione della Legge 180 coerente con la Costituzione repubblicana».
Un popolo, soprattutto giovane, violentemente narcotizzato, la violenza scientifica nelle strade di Genova, il paese immobilizzato. L’Italia ritratta dai testi dell’ultimo album è un paese arrabbiato e disperato insieme. Ma sembra raccontato da chi ne è in fondo molto innamorato…
«Certamente. Amo il mio paese. Amo la patria. E proprio per questo disprezzo i corrotti e i corruttori, gli arrampicatori sociali, le lobby, la criminalità organizzata, vero e proprio cancro sociale, gli speculatori edilizi, i populisti e i razzisti, e naturalmente tutto ciò che resta di fascista nel tessuto politico e sociale del paese. Vorrei che l’Italia, il mio paese, ritrovasse la forza di guardarsi allo specchio e di scoprire quanto è diventata brutta e diseguale, ignorante e indifferente, qualunquista ed edonista, egoista e razzista. Ero, sono, e sarò un idealista. Sempre».
All’idealista c’è da chiedere in che misura l’arte e la bellezza possono permettere di cambiare o rivoluzionare lo stato di cose corrente…
«Non so rispondere a questa domanda. Ci vorrebbe una discussione approfondita e su più livelli. Ma di una cosa sono certo: l’arte è sempre stata motore di progresso, speranza e futuro. E vorrei anche dire, manifestazione di autenticità vitale, di emancipazione, di fratellanza».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it