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Ecco perché le stragi sono "cosa nostra"

Dichiarazioni accorate, manifestazioni, sfilate, commemorazioni. Il 23 maggio l’Italia tutta si ferma almeno un attimo per ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini del…

Pubblicato il: 23/05/2016 – 17:07
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Dichiarazioni accorate, manifestazioni, sfilate, commemorazioni. Il 23 maggio l’Italia tutta si ferma almeno un attimo per ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Si ferma per non dimenticare. Ma quella che viene alimentata, anno dopo anno, è una memoria finta, una memoria babba. E non solo perché Giovanni Falcone ha ottenuto consensi e meriti soprattutto dopo la sua morte. Ma soprattutto perché sul suo omicidio, come su quello di Paolo Borsellino, quella che è stata fino ad oggi raccontata è solo una verità parziale. E una verità parziale è una verità negata.
Lo sanno i magistrati di Palermo, che caparbiamente stanno cercando di istruire un processo su quella pagina nera della storia d’Italia. Lo sanno i magistrati di Reggio Calabria, che forse in maniera ancor più determinata non si sono conformati a verità di comodo. Non si sono fermati a santini, cariche e lupare, ma hanno saputo leggere in filigrana quella struttura, costruita, mantenuta e alimentata per nascondere e tenere insieme un mondo molto più complesso e stratificato. Di fronte a quella «’ndrangheta visibile» non si sono fermati. Ma hanno cercato quei «riservati» che da decenni, se non di più, scrivono una storia d’Italia che non si conosce né si racconta.
Ad oggi, c’è un attore che manca nella ricostruzione del disegno che è costato la morte a Falcone, Borsellino e a chi il giorno della loro morte li accompagnava. Parla calabrese, ma le sue tracce sono rimaste ai margini della storia, giudiziaria e non. Eppure, fin dal 1992, ancor prima della morte di Borsellino, c’è stato chi ha provato a raccontarla. E lo ha fatto nel cuore dei palazzi del potere.
Il 4 dicembre 1992 il pentito Leonardo Messina viene convocato a Palazzo San Macuto per essere audito dalla commissione parlamentare antimafia, all’epoca presieduta da Luciano Violante. Uomo di fiducia di Piddu Madonia, uno dei capi dei corleonesi, Messina quando decide di collaborare, si affida a Paolo Borsellino. A lui svela la vera anima di Cosa Nostra. E forse così lo condanna a morte. Gli racconta di summit e omicidi, di una mafia che ha cambiato pelle, dei rapporti – modificati – con la politica e la massoneria. Al giudice che ha visto morire in un attentato barbaro il collega cui era più legato, Messina racconta di un’organizzazione che dopo aver a lungo collaborato con lo Stato, ha deciso di farsi Stato, e di chi in questo progetto la appoggia.
«Questi gruppi – spiega Messina – finora hanno controllato lo Stato. Adesso vogliono diventare Stato». Ma il progetto non riguarda solo la Sicilia. «Io parlo di Cosa Nostra, che è la stessa cosa in Calabria come in Sicilia» chiarisce il pentito al presidente Violante che insiste. Dunque «Sicilia, Calabria, Campania, Puglia». E per un motivo molto semplice «La ‘ndrangheta è solo un nome. La struttura è tutta Cosa Nostra». E questo – lascerà intendere il pentito e altri collaboratori chiariranno meglio e dopo di lui – non significa alcuna superiorità gerarchica della mafia siciliana su quella calabrese. Ma che il sistema criminale è unico, unito, stratificato e complesso. Che ognuno regna sulle proprie terre, ma in Italia – e forse oltre – si governa insieme. Che pezzi di Stato, nascosti sotto grembiuli massonici e casacche nere ispirate alla XMas, erano e sono seduti al tavolo di una trattativa permanente ed avevano e hanno un ruolo. Che le pagine più buie degli ultimi quarant’anni hanno una pluralità di autori, fino ad allora e ancora oggi salvati letture al ribasso degli eventi di cui sono stati protagonisti.
Di questo stava parlando Messina al giudice Borsellino quando una bomba gli ha strappato la vita. Di questo ha parlato il pentito ai parlamentari che hanno preferito ignorare quella traccia. Ma altrove, le sue parole non sono cadute nel vuoto. Anche perché a riscontrarle ci hanno pensato altri collaboratori, siciliani e non solo. Per questo oggi, tanto l’inchiesta Sistemi Criminali, dell’allora procuratore aggiunto Roberto Scarpinato, tanto quella sulla Trattativa del pool guidato dal pm Nino di Matteo, sono state in grado di continuare – inascoltate – a ricostruire faticosamente il mosaico di intrecci destinati a regalare alle mafie una nazione. Per questo in Calabria, da tempo – in silenzio – si annodano quei fili. Il mosaico è stato costruito fra Sicilia e Calabria, e solo lavorando tra Sicilia e Calabria lo si potrà individuare. E forse distruggere. Lo hanno detto pentiti come Antonio Galliano, Vincenzo Sinacori, Tullio Canella, Filippo Barreca, Pasquale Nucera, Giacomo Ubaldo Lauro. Più di recente – e la Dda reggina da tempo tesse il filo – ne hanno parlato pentiti come Nino Fiume e Consolato Villani. Si tratta di collaboratori diversi, con storie e ruoli diversi nel contesto criminale in cui si sono affermati. Ma cantano tutti la stessa canzone. E da i brividi. Perché parla di un grumo di potere impastato di massoneria, ‘ndrangheta, Cosa Nostra, destra eversiva e servizi cui il sud Italia è stato concesso come un regalo, divenuto per i popoli che lì abitano una condanna. Perché racconta di sistemi da decenni al lavoro tanto in Calabria, come in Sicilia, regioni divenute laboratorio criminale di una strategia che per teatro avrebbe dovuto avere l’Italia intera e – probabilmente – è servita a quei gruppi di potere che l’hanno sempre comandata. Perché identifica maestri tessitori, che decennio dopo decennio, vedono inalterato il proprio potere.
Ecco perché le stragi di Capaci e via D’Amelio sono una storia calabrese. Quell’attacco diretto – ipotizzava oltre dieci anni fa l’allora pm Scarpinato e hanno confermato i magistrati che hanno costruito l’indagine che ha incassato il visto buono di Morosini – che forse non è che una parentesi di una strategia molto più antica e allo stesso tempo successiva agli anni delle stragi, battezzata con i Moti di Reggio, svezzata con le stragi di Stato – da Gioia Tauro a Brescia – e divenuta adulta negli anni del boom delle leghe regionali.
Quei «progetti che – segnalavano gli inquirenti dell’epoca – sembravano poter coniugare perfettamente le molteplici aspirazioni provenienti da quel composito mondo nel quale gruppi criminali con finalità politico-eversive si affiancano a lobbies affaristiche e mafiose» e che avevano in Licio Gelli uno se non il principale ispiratore. Un progetto che a Reggio Calabria era cresciuto all’ombra di quella superloggia, guidata – dicono i pentiti – da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, benedetta dai miliardi del pacchetto Colombo in cui ‘ndranghetisti, vecchi arnesi dell’eversione, pezzi di Stato e della grande borghesia troveranno posto e che avrà emuli in Sicilia e altrove. Un progetto che casualmente troverà voce e gambe nella crociata dell’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, che immaginerà un nuovo Stato diviso in quattro macroregioni, in cui la costituzionalizzazione del potere dei sistemi criminali diventa un asse del sistema. Idee che – casualmente – si concretizzeranno nell’esplosione, avvenuta in quegli stessi anni, dei movimenti leghisti e regionalisti, che avranno – ancora casualmente – la propria riunione nazionale a Lamezia Terme.
Coincidenze, strane casualità, fili che nella storia ufficiale d’Italia non si intrecciano mai. Ma forse oggi potrebbero essere riuniti, riannodati fino a formare un’unica trama. Quella che ha soffocato non solo il Sud, ma tutto il Paese. Quella che si deve ricostruire perché ci sia davvero memoria.

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