REGGIO CALABRIA Il ribaltamento dell’assoluzione decisa in primo grado per il poliziotto Bruno Doldo ed una pena ancor più dura per l’ex consigliere comunale Giuseppe Plutino, già condannato in primo grado a 12 anni di reclusione come uomo del clan Caridi-Borghetto-Zindato nelle istituzioni. Per il resto, la pubblica accusa, rappresentata dal pg Monaco e dal pm Stefano Musolino – che ha chiesto e ottenuto l’applicazione anche in appello – ha invocato alla Corte una conferma delle pesantissime condanne stabilite in primo grado per gli imputati del procedimento Alta Tensione 2.
LE RICHIESTE In linea con le richieste all’epoca avanzate dal pm Stefano Musolino, i giudici avevano infatti condannato a 22 anni e sei mesi di reclusione Domenico Condemi, a 12 anni e 6 mesi il fratello Filippo, a 11 anni e 6 mesi Vincenzo Rotta e Rosario Calderazzo, a 11 anni Vincenzo Lombardo, a 10 anni e 6 mesi Giuseppe Pasquale Esposito, a 10 anni Natale Cuzzola e a 9 anni e 6 mesi Diego Quartuccio e Leo Caridi. Pene minori sono state in prima istanza stabilite per Natale Paolo Alampi, condannato a 5 anni più 1.300 euro di multa, e Antonio Casili e Diego Rosmini entrambi puniti con 4 anni di reclusione e 500 euro di multa. In primo grado era stato anche assolto il boss Pasquale Libri.
L’INCHIESTA Una sentenza che all’epoca ha sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio costruito dal pm Musolino nel corso di un dibattimento lungo e combattuto, che ha visto anche l’apertura di un fascicolo a carico dell’ex segretario questore del consiglio regionale Gianni Nucera. A inizio processo, grande accusatore di Plutino, per poi convertirsi in indagato nel corso del dibattimento. Nucera aveva messo nei guai il suo ex pupillo, accusandolo di aver fatto da mediatore fra lui e i suoi cugini, i fratelli Condemi, espressione del clan Caridi, per l’assunzione di un membro della famiglia. Scartato Domenico Condemi perché inadatto al ruolo, la scelta era caduta sulla nipote dei due, Maria Cuzzola, per la quale l’attuale segretario questore sarebbe stato a suo dire vittima di indicibili pressioni, tanto da arrivare a temere «ripercussioni per la mia famiglia, sia di ordine psicologico, sia per il fatto che Domenico potesse reagire in maniera non adeguata». Affermazioni smentite nel corso del dibattimento non solo da Plutino, e dai Condemi, ma anche dai collaboratori di Nucera, e ribaltate dal padre dei due fratelli oggi condannati, che in aula aveva rivelato: «Nel 2000 Nucera venne a chiedermi appoggio elettorale (…) ho sempre fatto politica e non ho mai voluto niente ma con Nucera ho parlato chiaro: io ti aiuto ma devi considerare che ho due figli. Nei prossimi cinque anni un posto, un qualcosa. Sono passati 5 anni, poi ne sono passati altri cinque e siamo arrivati a dieci. Ma da Nucera non ho avuto niente».
PINO PLUTINO UOMO DEL CLAN Affermazioni che avevano indotto all’epoca il pubblico ministero ad aprire un fascicolo, arricchitosi nel corso dell’istruttoria con le testimonianze di molti ex collaboratori del politico che avevano confermato il rapporto – datato, strutturato, di lungo corso e autonomo rispetto alla collaborazione con Plutino – fra l’ex segretario questore del consiglio regionale e quella famiglia che il politico si era limitato a definire di “grandi elettori”. Elementi che non hanno impedito ai giudici di affermare, in linea con quanto chiesto dalla pubblica accusa, il determinante ruolo delle ‘ndrine che controllano i quartieri San Giorgio Extra, Boschicello, via Pio XI, Modena, nella rielezione di Plutino. Un appoggio non dettato semplicemente da ragioni di opportunità o convenienza, ma perché Pino Plutino sarebbe uno di loro, un affiliato. Un’accusa cristallizzata nella rettifica del capo di imputazione chiesta dal pm in sede di requisitoria e che oggi acquista nuova forza grazie alle dichiarazioni del pentito Enrico De Rosa.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x