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La narrazione della mafia non è un fatto neutrale

Ci sono “fatti” in cui l’informazione riesce ad aprire un varco e arginare il senso di sconfitta che talvolta ammanta il cuore sano e vivo della nostra terra. Io credo nell’informazione, nonostante t…

Pubblicato il: 14/10/2016 – 15:27
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Ci sono “fatti” in cui l’informazione riesce ad aprire un varco e arginare il senso di sconfitta che talvolta ammanta il cuore sano e vivo della nostra terra. Io credo nell’informazione, nonostante tutto. E molto banalmente ne vorrei sottolineare la funzione sociale che pochissimi progetti editoriali considerano quando investono sul “capitale umano” in Calabria. Vorrei promuovere una riflessione molto semplice: cosa sarebbe accaduto senza la sparuta presenza di giornalisti in quell’udienza-ring in cui lo Stato, rappresentato dalla pubblica accusa, è stato preso a pugni verbali dalla collera dell’imputato? Una beata indifferenza.
Le conseguenze dell’omissione di quei fatti dalla conoscenza collettiva avrebbe rassegnato alla solitudine non solo un magistrato che assolve il proprio dovere con incrollabile fede e rigore. Avrebbe destinato alla solitudine anche tutti quelli che hanno letto, sentito, visto e appreso che lo Stato invece c’è, che non è inerme, che davanti alle sfide criminali lo Stato non resta a guardare e reagisce con la dignità di uno Stato.
Dopo che il silenzio era calato come un manto, i fatti accaduti il 12 ottobre in un’aula di Tribunale a Vibo Valentia, rilanciati dal “Corriere della Calabria”, testata diretta evidentemente in modo capace di aprire un varco contro il muro dell’informazione nazionale, sono riusciti a “fare notizia” e hanno assunto la loro dimensione: quelli cioè della conoscenza collettiva, civile e politica.
Da questo caso, atterrato sulla scrivania del ministro Orlando, emerge evidente come alla costruzione civile non è escluso nessuno. Certamente il primo riconoscimento va ai magistrati e alle forze di polizia che svolgono con fede e rigore le proprie funzioni al servizio dello Stato, e va anche a quei giornalisti disposti a raccontare i fatti, anche quelli duri e crudi come l’arringa a lingua sciolta di un boss che ha paura di perdere la partita con la giustizia. Fino a quando ci saranno giornalisti e magistrati di questo spessore etico e professionale sarà possibile sognare di raccontare un giorno, speriamo non lontano almeno per i nostri nipoti, di quello che fu la lotta alla ‘ndrangheta in questa nostra terra, così tremenda da avere dato natalità a veri e propri imperi di sangue.
Non ho mai considerato la narrazione dei fatti di mafia un fatto neutrale. Al contrario è tale la possibilità di affascinare i giovani o di stancare gli adulti che il rischio che giudico un rimedio peggiore del male è finire di far parlare e salire in cattedra o dietro un corteo persone a cui si fatica a riconoscere la stessa patente di credibilità. Su questo una cosa sola vorrei dirla. Con tutto il rispetto per i big dell’antimafia in Aula Magna, io credo che bisogna ritornare in classe per promuovere quelle che ai tempi della mia scuola si chiamava “discussione” e ne usciva quasi sempre fuori una traccia per sviluppare un tema. Un tema “etico” che a volte ci impegnava ore, fino a quando non spuntava la parola giusta, e come un balsamo scioglieva i pensieri dandogli una direzione. Ecco, in questa vicenda che vede una donna magistrato antimafia alla ribalta, suo malgrado, come parte offesa, la domanda su cui chiederei ai miei alunni di sviluppare un tema non avrebbe come traccia gli omicidi e i sequestri ma la protezione e la gratitudine. In ogni declinazione in cui è possibile raccontare dello sciacallaggio del diritto della difesa da parte di un imputato di ‘ndrangheta, a danno della pubblica accusa esercitata in nome per proteggere noi cittadini dai criminali, non ci sarà nulla da tenere nel cuore; fino a quando non sboccia la parola “grazie”. Allo Stato, io dico grazie quando con il suo lavoro, e il dispiegamento dei suoi poteri, protegge il diritto alla speranza. Al magistrato perché ci offre un esempio concreto di agire in cui credere. Al giornalista perché protegge il diritto a conoscere. E dico grazie alla scuola quando mi aiuta a pensare e ragionare in modo da cercare nel mondo il valore della condivisone e della gratitudine. Alla vita serve la speranza. E il cuore grato è quello più capace di sperare e sognare… Abbiamo tutti necessità di non smettere di sognare, lavorare, per un mondo in cui non vi sia prevaricazione! «Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire», e fino a quando ci saranno persone come Nicola Gratteri, Marisa Manzini, Marialucia Conistabile, Paolo Pollichieni, per restare in tema, in Calabria possiamo non smettere di sognare, lavorare e impegnarci per un mondo migliore. Grazie.

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