Populismo, virus o anticorpo della democrazia?
È opinione ormai diffusa che il populismo abbia attecchito come un virus nelle nostre società. Gli si attribuisce, infatti, una carica negativa, in grado di mettere a rischio la democrazia. La narraz…
È opinione ormai diffusa che il populismo abbia attecchito come un virus nelle nostre società. Gli si attribuisce, infatti, una carica negativa, in grado di mettere a rischio la democrazia. La narrazione che corre è quella che ne esalta la spinta propagandistica e meramente velleitaria. Salvo, però, sorprendersi del trionfo di Donald Trump, della Brexit, del diffuso euroscetticismo o, in generale, della disaffezione alla politica.
È, allora, il caso di chiedersi se il populismo non sia, piuttosto che la causa, il sintomo della crisi della democrazia, e se proprio in esso non debbano trovarsi gli anticorpi necessari ad arrestarne il declino.
Il dibattito politico-culturale veicola l’idea che viviamo nell’era della «post-democrazia». E con buone ragioni. I nostri sistemi politici, per molti versi, non appaiono che simulacri, nei quali spesso si riflettono le decisioni fondamentali prese al di fuori dei canali democratici, in circuiti, cioè, dove a dominare sono, da un lato, le élites tecnocratiche, e, dall’altro, i grandi interessi economici.
Le politiche neo-liberistiche, dominanti nello scenario globale a partire dagli anni ’80 del XX secolo, hanno finito per produrre un’afasia delle formazioni socialdemocratiche, quando non una loro «mutazione genetica» che, in alcuni casi, le ha portate ad una resa senza condizioni e, in altri, a programmi sbiaditi o a mere lettere di intenti.
È lungo questa traiettoria che si è teorizzata la c.d. «terza via» (A. Giddens), imboccata dal New Labour di Blair, nella quale il centro veniva configurato come “luogo della politica”, al di là della destra e della sinistra: il solo che potesse governare la modernizzazione conseguente ai processi globali.
Il risultato è che la politica si è “omologata” al centro, finendo così, la democrazia, per svuotarsi del suo contenuto essenziale: l’antagonismo. L’antagonismo tra due chiare e distinte visioni del mondo, della società, dello sviluppo, costruite intorno a due pilastri fondamentali, la libertà e l’uguaglianza. La loro oscillazione impedisce il crollo della democrazia. È dove oscillano che poggia la società autenticamente liberal-democratica: quella che, nel XIX secolo, ha reso più democratico il liberalismo e più liberale la democrazia, come ha dimostrato McPherson.
Mancando l’oscillazione, la democrazia è bloccata.
Contro questo blocco preme la massa critica di quanti non trovano risposta nei canali della rappresentanza democratica; di quanti avvertono l’inutilità del voto a fronte del potere delle élites tecnocratiche e dei grandi interessi economici, burattinai del gioco della politica nel quadro condiviso del “pensiero unico”. A questa massa riescono a dare voce leaders carismatici, che, offrendo un rapporto diretto lungo pericolose scorciatoie, ne muovono gli umori, ne cavalcano le paure, danno sponda all’insicurezza, offrono fin troppo facili rimedi alla marginalità e alla disuguaglianza, brandiscono vecchi – e, però, di immediata presa – strumentari protezionistici nelle relazioni commerciali. Offrono, insomma, un’alternativa al sistema, costruita, però, su incerte e deboli piattaforme culturali.
Immane, dunque, il compito delle classi dirigenti: recuperare e assorbire su scala globale questa massa critica, non disdegnandola come populismo con aria di sussiego, ma guardando dentro quello che la muove per capirne le aspirazioni e i bisogni e costruirvi intorno solidi progetti politico-culturali: alternativi, lungo i binari della liberal-democrazia autentica. Per evitare di sorprendersi troppo il giorno dopo la chiamata del popolo alle urne.
*Ricercatore di Diritto amministrativo e docente di Diritto urbanistico, Università Mediterranea di Reggio Calabria