Se vince il Sì le Regioni restano senza rappresentanza
Un’importante e spinosa problematica verrebbe ad affliggere l’ordinamento giuridico italiano se nella consultazione referendaria del prossimo 4 dicembre il corpo elettorale dovesse approvare la rifor…
Un’importante e spinosa problematica verrebbe ad affliggere l’ordinamento giuridico italiano se nella consultazione referendaria del prossimo 4 dicembre il corpo elettorale dovesse approvare la riforma costituzionale proposta dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi.
In particolare tutte le Regioni ad autonomia differenziata rischiano, molto concretamente, di restare prive di rappresentanti – o comunque di avere una rappresentanza limitata – nel nuovo Senato delle autonomie.
Tutti gli statuti delle Regioni in questione, approvati con leggi costituzionali, prevedono il divieto di cumulo della carica di senatore con quella di consigliere regionale (vedansi: l’articolo 17 dello statuto della Sardegna, l’articolo 7 dello statuto della Sicilia, l’articolo 15 dello statuto del Friuli Venezia Giulia, l’articolo 28 dello statuto del Trentino Alto Adige, l’articolo 17 dello statuto della Val d’Aosta).
Ciò significherebbe, pertanto, che i senatori di tali regioni potrebbero essere individuati soltanto tra i sindaci, come tali privi di quell’esperienza amministrativa globale e di ampia visione attorno a cui pure ruota il requisito professionale dell’inquilino tipo del nuovo Palazzo Madama. Senza tacere che i sindaci e i consiglieri regionali non sono fungibili!
Un gap, dunque.
Dal punto di vista giuridico non appare convincente l’interpretazione suggerita da alcuni pur eminenti costituzionalisti secondo cui, in virtù del disposto dell’articolo 12 delle preleggi, l’approvazione di una disposizione successiva abroga la precedente rispetto a cui sia incompatibile.
Tuttavia va osservato che le preleggi sono disposizioni preliminari al codice civile e quindi contemplano criteri non applicabili alla Costituzione, fonte normativa gerarchicamente sovraordinata.
D’altronde nemmeno si giustificherebbe un processo di abrogazione implicita delle norme costituzionali, la cui revisione è sottoposta a un procedimento molto gravoso.
Si consideri, poi, pure che il menzionato articolo 17 dello Statuto della Sardegna contempla il divieto di cumulo delle cariche di consigliere regionale e sindaco di Comune con popolazione superiore a diecimila abitanti. Potrebbe allora affermarsi che, se il sindaco di Comune medio-grande non può essere consigliere regionale e il consigliere regionale non può essere senatore, per la proprietà transitiva detto sindaco non possa ricoprire la carica di senatore.
Per nulla astratto sarebbe allora, quanto alla Sardegna, il pericolo dell’elettorato passivo per i soli sindaci dei Comuni più piccoli.
E, ancora, si pensi all’eventualità della decadenza di un sindaco-senatore a cagione di provvedimento amministrativo o giurisdizionale. Tale provvedimento avrebbe incidenza anche sullo status di parlamentare dell’interessato? Servirebbe il vaglio della Giunta per le elezioni, organo – almeno nell’assetto normativo attuale – titolare in via esclusiva della potestà di verifica dei titoli di eleggibilità dei senatori? E, se occorresse, questo vaglio potrebbe essere di segno contrario al provvedimento decadenziale in questione?
Eguali considerazioni valgono anche per le sospensioni di cui alle disposizioni della legge “Severino”, ove l’ulteriore elemento problematico sarebbe costituito dalla transitorietà della preclusione. Ipotizziamo un Senato a composizione variabile nel tempo? E quale sorte toccherebbe agli atti non definitivi cui avrebbe partecipato il senatore sospeso?
Invero la Corte Costituzionale sarebbe fin da subito deputata a sciogliere i nodi così prospettati, la cui esistenza dimostra come la proposta riforma costituzionale sia viziata ab origine.
*Avvocato e docente universitario