Quei figli di un Dio minore e le colpe della Regione Calabria
Nei giorni scorsi l’assessore regionale al lavoro e ai servizi sociali ha annunciato un nuovo regolamento per la gestione dei minori in comunità, non chiarendo nei fatti quale sarà il modello o…
Nei giorni scorsi l’assessore regionale al lavoro e ai servizi sociali ha annunciato un nuovo regolamento per la gestione dei minori in comunità, non chiarendo nei fatti quale sarà il modello organizzativo e quali competenze avranno i Comuni. È un argomento assai delicato, specchio di una disattenzione profonda verso le politiche sociali che dura da almeno un decennio e che vive di continui e improvvisati rattoppamenti. Roccisano non spiega quali saranno le competenze esclusive dei Comuni, la loro autonomia in sede di verifica, controllo e accreditamento, le risorse messe in campo.
Quelle che hanno caratterizzato, sinora, le strutture assistenziali sono basse, insufficienti, incomplete, seppure sia intervenuta nel tempo e dopo una lunghissima battaglia (grazie all’allora assessore Salerno) una modifica quantitativa certo non bastevole. Se analizziamo la gilda di provvedimenti enunciati negli anni e quelli concretizzatisi anche attraverso il fondo sociale, il modello che ne esce è raggelante: non inclusivo, non tendente alla deistituzionalizzazione, incapace di cogliere gli elementi ed i bisogni di una platea diffusa di minori, in gran parte sottratti per gravi motivi ai loro nuclei familiari.
Le rette corrisposte non coprono le necessità basilari del diritto allo studio, alla vita, di una rieducazione psico-sociale necessaria, né quegli elementi di quotidianità (alimenti, vestiario, riscaldamento) che sono la premessa della sopravvivenza. Una ricognizione qualitativa dei bisogni avrebbe consentito, semplicemente copiando Regioni virtuose, di poter meglio indirizzare i programmi e le risorse.
Se due minori, tanto per essere prosaici sino alla radicalità, vengono sottratti alle loro famiglie per una grave questione di indigenza e costano duemila euro mensili alla collettività, basterebbe rilanciare politiche di inclusione e di partecipazione reddituale per evitare l’istituzionalizzazione, garantendo anche un risparmio considerevole. Si tratta di linee progettuali che spettano alla Regione, la stessa che aveva annunciato l’introduzione delle forme di sostegno al reddito ma che in due anni non ha proseguito su questa strada. Cosa possano fare i Comuni in un quadro di indirizzo così confuso è difficile capirlo.
E allora è in discussione il sistema del Welfare, che per la verità l’ex assessore Carlo Guccione aveva iniziato ad affrontare, e che non può non riguardare una valutazione sistemica dell’assistenza. Il concetto stesso di assistenza intanto presuppone l’eliminazione di alcune forme lessicali (non per formalismo ipocrita ma per rispetto della dignità) che sottintendono una gerarchia pre-imposta.
Parlare di “miseria“ in gergo istituzionale fa dimenticare due secoli di socialismo e riporta l’immagine complessiva a un ottocento dickensiano. La sfida che si apre per gli enti locali è quella di tenere un canale aperto fra le istituzioni, di considerare la non autosufficienza non come una cronica desolazione ma come un incidente superabile in un contesto dialogico vivo.
Roccisano avrebbe dovuto (e anche potuto, per età e sensibilità) rompere lo schema di una pietrificazione consolidata, puntando a rendere rafforzante il rapporto tra famiglie e istituzioni. Questo processo fa parte di una filiera sociale che non può essere derubricata: si pensi ai Sert (laddove esistono disagi legati alle dipendenze o all’alcol) ai Csm, alla necessità mai soddisfatta di aprire sportelli dialoganti rivolti all’adolescenza, gratuiti e in grado di essere reale supporto psicoterapico in un’età cosi complessa.
Il nodo cruciale, dunque, rimane il tipo di intervento sociale che deve essere svolto e rivolto e a me pare che sia il solito, burocratico e istituzionale, freddo e privo di elementi di creatività funzionale. Un dirigente, sia esso politico o amministrativo, che si occupi di Welfare, deve avere presente contemporaneamente la solidità della realtà e la fantasia dell’immaginazione: è il messaggio marcusiano travolto dal post sessantotto che rimane sostanzialmente valido.
È necessario capire cosa si voglia fare della linea sociale per comprendere se da essa, come è doveroso, partano progetti di riscatto e di emancipazione o se essa stessa diventi inconsapevole strumento di subordinazione e di compressione. Attendiamo che si dipani la matassa ma nell’attesa acquisiamo l’insight di dover stravolgere, in buona parte, il concetto esistente di welfare, per consentire veramente una piccola rivoluzione culturale.
*Giornalista e sociologo della salute