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MANDAMENTO | Il “codice penale” delle 'ndrine

Nello Stato al rovescio dei clan c’è una giustizia che per capi, luogotenenti e affiliati dei clan conta più di quella amministrata dai tribunali della Repubblica. È quella della ‘ndrangheta, con i…

Pubblicato il: 05/07/2017 – 13:00
MANDAMENTO | Il “codice penale” delle 'ndrine

Nello Stato al rovescio dei clan c’è una giustizia che per capi, luogotenenti e affiliati dei clan conta più di quella amministrata dai tribunali della Repubblica. È quella della ‘ndrangheta, con i suoi gradi di giudizio, i suoi codici e le sue regole di procedura. Arresti e processi capi e gregari li mettono in conto, anche se fanno di tutto per dribblarli. La legge della ‘ndrangheta no. Per gli affiliati dell’ala militare è un irrinunciabile pilastro di un sistema che affonda le proprie radici nel secolo scorso, se non prima, e che è stato in grado di innovarsi, mantenendosi al contempo immutabile. Dai tribunali di omertà instaurati nelle carceri borboniche all’attuale articolato sistema giudiziario dei clan, il principio è rimasto identico: è solo la ‘ndrangheta a poter giudicare la ‘ndrangheta. E procedure e regole sono codificate e complesse.

SISTEMA COMPLESSO DAL CUORE TRIBALE Non è stato facile ricostruirle per il Ros. Ci è voluto un lavoro duro, che dagli archivi storici sparsi ai quattro angoli del globo è arrivato fino all’analisi minuziosa di intercettazioni e verbali, depositati agli atti di oltre cinquanta procedimenti penali. Ma alla fine è emerso un quadro preciso, chiaro. E che cancella l’idea di una ‘ndrangheta semitribale che regola in modo disordinato e schizofrenico i propri conti sulla base di una legge del sangue, che assomiglia a quella del taglione. Anche l’ala militare delle ‘ndrine, sublimando quelle “regole” antiche, è stata in grado di dotarsi un sistema complesso che prevede persino diversi gradi di giudizio.

I TRIBUNALI DEI CLAN Alla base dell’ordinamento giudiziario dei clan c’è il consiglio locale, quindi il consiglio generale, ed infine un ulteriore organismo costituito presso la Provincia. Ogni “tribunale dei clan” ha competenze diverse. Quando i “reati” riguardano esclusivamente il locale di appartenenza di un affiliato è il consiglio locale ad intervenire. Se i problemi sono più gravi o coinvolgono più clan tocca al consiglio generale, formato da cinque locali, intervenire. I destini dei santisti o di una singola locale sono invece appannaggio della Provincia, che può anche concedere grazie e stabilire nuove regole. Ma per chiudere o riaprire un locale deve decidere con l’accordo di altre cinque realtà.

IL CODICE PENALE DELLE ‘NDRINE Un sistema complesso e dalle regole rigide. Come rigida è la codificazione dei reati, divisi in trascuranze – violazioni di media entità – e sbagli. Fra questi ci sono le “tragedie” le attività di uno ‘ndranghetista che per fini personali, fa ricadere le proprie colpe sugli altri affiliati o causa faide interne o guerre con altri clan, le “macchie d’onore”, ovvero tutti i comportamenti che causano la perdita “dell’onorabilà” personale dell’affiliato, e le “infamità”, uno dei più gravi, che si verifica quando l’affiliato tradisce e rinnega i principi fondamentali dell’organizzazione, come il vincolo di omertà.

PENE E SANZIONI Per ogni violazione, c’è una sanzione. Lasciare la moglie, che era figlia di boss, al collaboratore di giustizia Maurizio Maviglia è costato il “distacco”, cioè gli è stato impedito di partecipare attivamente alle attività del clan. «Mi hanno distaccato e non mi raccontavano più niente – racconta ai pm – poi me ne sono andato da Africo. Mi hanno allontanato loro e poi mi sono allontanato più io». Filippo Santanna invece è stato invece prima “fermato” e poi “riattivato”, a causa di una “macchia d’onore”: si era sottratto ai propri “doveri” sostenendo di dover provvedere “ai figli piccoli”. Dalle chiacchierate di don Peppe Pelle, gli investigatori apprendono invece che un affiliato era stato prima «spogliato» e successivamente «riattivato» a causa di una «infamità» consistita nell’aver denunciato «a uno che l’ha sparato! Ed è andato a fare nome e cognome in caserma!». Per Carmelo Novella, l’aspirante scissionista della ‘ndrangheta del Nord, la pena è stata la più dura prevista dal codice, una sentenza di morte.

PUNIZIONI ANCHE PER I LOCALI “Pene” che possono essere inflitte anche ad interi locali. Quello di Rivoli, nel torinese, è stato sospeso quando il suo capo, Salvatore De Masi, ha deciso di “distaccarsi” a causa dei gravi problemi di salute che gli impedivano di gestire al meglio l’organizzazione. Non c’era nessuno di cui si fidasse tanto da “dargli la mano”, che nel linguaggio delle ‘ndrine significa cedere lo scettro di comando. Tornato in forma, svela l’indagine Minotauro, De Masi è stato “liberato” come “uomo d’onore”, cioè riammesso all’interno dell’organizzazione, ma per il suo locale è stato più complesso.

IL CUORE IN CALABRIA La questione è stata dibattuta sia a livello provinciale in Piemonte, sia a livello centrale in Calabria. Perché il sistema è identico a se stesso in qualsiasi regione o paese di radicamento, ma il suo massimo vertice rimane in Calabria. Lì dove «batte il cuore dell’organizzazione che infiamma la ‘ndrangheta di tutto il mondo» spiega il comandante del Ros, Giuseppe Governale. Ed è Giuseppe “Ringo” Morabito, nipote dell’omonimo boss Tiradritto a spiegare involontariamente perché.

«MICA SIAMO I CORLEONESI» Non è ancora un boss, anche se fa di tutto per diventarlo arrivando a pestare i piedi persino ai fratelli. Ha un cognome importante, ma non un ruolo decisionale di vertice. Ma a Ringo Morabito, il suo cognome basta per sentirsi erede di un’aristocrazia criminale cui sente di appartenere per sangue e per intima convinzione. «Altro che “corleonesi”, che sono infami che hanno trattato con lo Stato! Ancora noi non abbiamo trattato! E quando tratto, mi impicco nella cella!» dice convinto. «I tiradritto – sostiene – muoiono in cella». Per lui sono «la mafia originale, non la scadente», che gli permette di affermare «qui lo Stato sono io». E in quanto tale di amministrare la legge.

LA PROMESSA DEL RE SOLE Per un imprenditore che tarda nel versare il pizzo preteso dal giovane “Ringo”, la legge della ‘ndrangheta significa una seria minaccia di morte. «Io fra due giorni non rispondo più delle mie azioni – gli grida contro il rampollo del clan – Io voglio cinquemila euro. Quarant’otto ore, poi entro qua dentro e non so più che faccio ma non a chiacchiere. Fra due giorni vi ricordate il mio nome». Ma questo non è che un esempio perché, dentro e fuori dall’organizzazione, la legge dei clan è uguale per tutti «dall’Australia fino a “mori” Africo!». Parola di aspirante re sole della Locride.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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