Skip to main content

Ultimo aggiornamento alle 9:16
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 4 minuti
Cambia colore:
 

«Il sindaco: amministratore o organizzatore del consenso?»

È profondamente cambiato il ruolo del sindaco. Ed è cambiato per una molteplicità di ragioni. Innanzitutto la riforma, che ha portato alla sua elezione diretta, l’ha ormai da tempo proiettato verso u…

Pubblicato il: 13/02/2018 – 22:50
00:00
00:00
Ascolta la versione audio dell'articolo
«Il sindaco: amministratore o organizzatore del consenso?»

È profondamente cambiato il ruolo del sindaco. Ed è cambiato per una molteplicità di ragioni. Innanzitutto la riforma, che ha portato alla sua elezione diretta, l’ha ormai da tempo proiettato verso un deciso protagonismo, fin da subito esercitato con vigore. Un protagonismo  per molti versi inseguito dallo stesso legislatore per colmare il vuoto lasciato dalla crisi dei partiti di massa.
La lotta politica si svolge, secondo consolidate teorie, a due livelli: il livello dell’organizzazione del consenso e il livello dell’amministrazione. Fino agli anni ’80 al sindaco competeva il ruolo dell’amministrazione, quello cioè che porta a prendere decisioni. Spettava ai partiti, invece, il ruolo di organizzazione del consenso. Era questa la summa divisio.
Quando il ruolo dei partiti si disarticola, al sindaco viene consegnato il doppio ruolo: quello di amministrare e quello di organizzare il consenso. Inevitabile, per molti versi: se i partiti sono ormai incapaci di organizzare il consenso intorno ad un’idea condivisa di società e di sviluppo, al sindaco non resta che fare da sé. 
E però il cumulo dei due ruoli è gravido di rischi. Se il sindaco, quando decide (i.e., amministra), pensa ad organizzare il consenso che gli è necessario per governare, rischia di decidere male. E di adottare decisioni “inquinate” dall’esigenza di ottenere e mantenere la sua base.
Il tavolo del sindaco, ogni mattina, si affolla di una serie di domande: le più diverse tra loro, le più disparate, talora confliggenti, espressione di interessi, di valori, ora di individui ora di gruppi. Domande che, prima di arrivare sul tavolo del sindaco, avrebbero bisogno di essere filtrate, mediate, vagliate dai partiti. Organizzate nella trama complessiva di un disegno politico. Coerente. Organico. Venuta meno la funzione dei partiti, tutta la tensione sociale si scarica sul tavolo del sindaco, costretto ad amministrare con un occhio e ad organizzare il consenso con l’altro.
La norma che consente di “pescare” gli assessori dentro il consiglio comunale non è una buona norma. Anch’essa costringe gli assessori ad amministrare con un occhio e ad organizzare il consenso con l’altro. Anch’essa, a suo modo, figlia della crisi dei partiti.
Insomma, un diffuso strabismo. Decidere non è organizzare il consenso. Organizzare il consenso è mediare, comporre, tessere. Decidere, già dal punto vista etimologico (de – caeděre) significa «tagliare da», «tagliar via», «dare un taglio». Definire (in modo netto e deciso) interessi, dopo che le domande sociali sono state mediate, composte, intessute in un disegno politico.
Non sarebbe il male maggiore lo strabismo dei sindaci nella crisi dei partiti, se non si dovesse prendere atto che il potere di firma dei dirigenti (i quali sfuggono ai meccanismi della responsabilità politica diretta) finisce in massima parte per assorbire il potere di decisione. Lasciando così ai sindaci il solo ruolo di organizzatori del consenso. E ai sindaci onesti la responsabilità di pagare le conseguenze di decisioni prese ad altri livelli.
Ma al protagonismo dei sindaci porta pure il protagonismo delle stesse città. Il nuovo millennio è il secolo delle città: a questo Beppe Sala ha dedicato il suo nuovo libro (“Milano e il secolo delle città”, La nave di Teseo, 2018). Scritto per raccontare l’esperienza della sempre operosa Milano che, con Expo 2015, è diventata vetrina del mondo ed è oggi tra le città più dinamiche.
Occupano la ribalta del mondo: Los Angeles, New York, Londra, Tokyo, Singapore, ecc.. Città-mondo. Producono da sole più pil di quanto riesca a produrne un’intera nazione.
Il futuro passa per la città. E nessuna città può pensare di vivere del suo passato, in un’epoca in cui i processi globali producono grandi e rapide trasformazioni. Penso, per un attimo, alla città di Torino. La città della Fiat, degli operai, dei meridionali che a migliaia saltavano sui treni per indossare la tuta blu. La città-fabbrica. Industriale, razionale, meccanica, moderna. Disegnata secondo un processo decisionale che dall’alto procedeva verso il basso. Spazzata via, in un soffio, dalla crisi degli anni ’90. Dai venti della globalizzazione che alla “fisicità” dei luoghi sostituiscono la “fluidità” della rete. Dove “prende corpo” una nuova mobilità in uno spazio senza confini. Senza territorio.
Le città sono chiamate a reinventarsi continuamente. Per sopravvivere a se stesse. E, per questo, esigono risposte continue dai sindaci. Esigono strategie di attrazione di imprese, di investimenti, di eventi, di turisti. Le città sono un brand. Da difendere giorno dopo giorno sul “mercato”, dove a giocare in prima persona sono i sindaci. 

*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria  

Argomenti
Categorie collegate

x

x